La ‘mission’ di Articolo 643, fermare gli errori giudiziari e l’abuso di custodia cautelare
Anche un solo giorno di carcere può cambiare la vita di un uomo. Ricco o povero, famoso o nell’ombra, di destra o di sinistra. Non c’è colore politico o condizione economica e sociale che tenga, quando si è subìto un errore giudiziario o un’ingiusta detenzione. Lo slogan è ‘tutti vittima di fronte alla legge’: sono oltre 2mila le persone che ogni anno vengono risarcite dallo Stato per essere finite dietro le sbarre senza colpa. E’ di qualche giorno fa la proposta di legge targata Pdl, presentata alla Camera da Giuliano Cazzola, di istituire una Giornata della memoria delle vittime di errori giudiziari. Dal 2012, ogni 18 maggio, giorno emblematico della morte di Enzo Tortora, dovrebbero essere protagoniste quelle persone, note e meno note, le cui storie sono accomunate dallo stesso identico dramma. Perchè quella perquisizione in casa alle sette del mattino, quel mandato di custodia cautelare e quei giorni da detenuto, hanno cambiato per sempre la loro vita. Lo sa bene l’avvocato bolognese Gabriele Magno, presidente dal 2000 di ‘Articolo 643’, associazione nazionale che raccoglie le vittime, e le loro famiglie, di quegli errori che affollano le aule di giustizia. A portarla avanti, avvocati specializzati nell’assistenza e nella revisione processuale, magistrati, rappresentanti delle istituzioni e di tutti gli schieramenti politici.
Dopo la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo dedicata alle toghe, il Pdl chiede che sia istituita anche una Giornata della memoria delle vittime degli errori giudiziari. Promotore dell’iniziativa, Giuliano Cazzola. La data scelta è emblematica, il 18 maggio, giorno della morte di Enzo Tortora. Cosa ne pensa?
“Ovviamente con noi, la proposta sfonda una porta aperta. Le statistiche del ministero parlano di una media di 8000 richieste di riparazione per ingiusta detenzione l’anno, di cui ne vengono risarcite 2000. Ogni giorno di ingiusta detenzione costa allo Stato 235 euro che vengono ridotti della metà in caso di arresti domiciliari, in vista della minore afflittività. Il numero dei risarcimenti si eleva esponenzialmente a 36mila casi l’anno per l’irragionevole durata del processo (Legge Pinto). Infine i casi di errore giudiziario, con revisione processuale, sono circa 100 l’anno. Ci sono molte storie limite, ma a nostro avviso è peggiore l’abuso che si fa della custodia cautelare, spesso inflitta per pericolo di fuga o di reiterazione del reato quando non ce ne sarebbe spesso bisogno. E sono molte le Corti d’Appello che condannano il ministero dell’Economia, quindi gli stessi contribuenti, a riparare il danno”.
Quando e come nasce ‘Art.643’, quali i casi più significativi a cui si è ispirata e qual è l’attività di intervento dell’associazione?
“L’associazione, che prende il nome dall’articolo 643 del codice di procedura penale sulla riparazione dell’errore giudiziario, nasce 11 anni fa. L’occasione è stato uno studio dell’Eurispes, dove venivano fuori cifre spaventose: dal ’48 al ’99, erano state 4 milioni le persone che avevano subìto il carcere ingiustamente. E non c’era nessuna associazione che si occupasse del fenomeno. Certamente il caso emblematico che tutti conoscono è quello del giornalista Enzo Tortora, ma i casi sono troppi e tanti. Ma nel tempo, tappa dopo tappa, qualcosa è cambiato, in meglio, per fortuna. Prima del ’99, data dell’entrata in vigore della legge Carotti, il risarcimento massimo era di 100 milioni delle vecchie lire, anche per 20 anni di carcere. E solo una persona, ebbe l’indennizzo massimo: Clelio Darida, ex sindaco di Roma, Guardasigilli e sottosegretario in varie fasi di Governo, rappresentò il caso limite, per 140 giorni di carcere ingiusto. Con la legge Carotti invece, si è passati dalla cifra massima di 100 milioni a 1 miliardo, quindi 500mila euro attuali, in caso di abuso della custodia cautelare. Altra data importante, per l’errore giudiziario, è stata il 2003, quando si è stabilito che non esiste un limite massimo di indennizzo, perchè è entrata in auge la nuova figura giuridica del danno esistenziale. Caso emblematico è quello di Daniele Barillà, protagonista di uno scambio di persona e per questo accusato ingiustamente di essere un narcotrafficante. Dopo che l’Escobar della Brianza, così fu soprannominato dopo l’arresto, era stato condannato a 18 anni, la Corte d’Appello di Genova gli ha riconosciuto per i 7 anni e mezzo di carcere patito da innocente, un maxi-risarcimento di 4 milioni e 600mila euro, per il danno esistenziale oltre a quello materiale.
Dopo tanti anni di attività, c’è un caso che l’ha maggiormente colpita?
“In realtà sono molti i casi a cui siamo affezionati. Da quelli più noti a livello mediatico, come quello che ha coinvolto Gigi Sabani, che dopo la sua disavventura giudiziaria disse: ‘”Ora rido, ma il dolore per quell’ingiustizia mi è rimasto. La spina riguarda il mio caso giudiziario. Un terribile errore che può capitare a tutti’. Penso al musicista e compositore Lelio Luttazzi, che proprio mentre si trovava all’apice del suo successo, nel giugno del ’70, fu arrestato con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti assieme all’attore Walter Chiari. Dopo circa un mese di carcere fu libero di uscire, completamente scagionato. E ancora, tra i casi più noti, quello del portiere di Via Poma Pietrino Vanacore: il suo ultimo biglietto, lasciato in macchina, parlava abbastanza chiaro. Ma ci sono anche storie di gente comune, che prendiamo ugualmente a cuore, soprattutto quelle legate a episodi di violenza sessuale su donne e minori, perchè in questi casi oltre all’onta, c’è un discorso dei problemi che sorgono in carcere con gli altri detenuti. La vita di un uomo cambia anche con un solo giorno di carcere: per tutti la storia va sempre allo stesso modo. Alle 7 del mattino ti perquisiscono la casa, con un mandato di custodia cautelare, e non puoi fare nulla. Per me fare questo lavoro è ormai una questione etica”.
Pensa che tra le cause dei numerosi suicidi che avvengono dietro le sbarre, ci sia proprio l’errore giudiziario?
“Molte volte è così, non posso escluderlo. Il carcere fa la sua parte nelle persone psicologicamente deboli. Gente che non sa darsi una spiegazione per quello che gli è accaduto, che pensa continuamente alla famiglia, agli amici. Sono questioni che toccano tutti gli esseri umani, ricchi e poveri, uomini di destra e di sinistra. Perchè l’argomento non è strumentalizzabile a livello politico e non può non unire”.
Come associazione attiva sul tema, avete mai presentato delle proposte per leggi ‘ad hoc’ che migliorino la condizione delle vittime della malagiustizia?
“Sono due le proposte legislative più rilevanti che portiamo avanti. La prima questione riguarda l’ingiusta detenzione: la richiesta di indennizzo, differentemente dall’errore giudiziario, subisce un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perchè si crea una prescrizione brevissima su un errore di questo o quel magistrato. E se passano i due anni, lo Stato non pagherà più. Vogliamo che i due anni vengano sostituiti con l’inciso ‘in ogni tempo’, per dare modo a chiunque di rivalersi. Perchè i primi anni, molte persone, per un fatto psicologico, vogliono rimuovere quanto accadutogli, c’è una sorta di blocco. Se invece la richiesta di indennizzo non ha limiti temporali, o comunque ha tempi molto più prolungati, mandiamo un messaggio alle toghe, che con maggiore scrupolo faranno attenzione a non commettere errori o a non abusare della custodia cautelare. Dall’ ’89 al 2011, sono stati una sessantina i casi di magistrati ‘responsabili’ di errore, e una metà sono stati stralciati. Altra proposta, creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro, perchè vengano riabilitate. Ad esempio, penso ai concorsi pubblici, dove la condizione delle vittime della malagiustizia, dovrebbe essere equiparata in un certo senso, a quella dei portatori di handicap. E’ una questione di riabilitazione, di tornare alla vita prima di quelle terribili notti in cella. Perchè quello che più conta nella nostra ‘mission’ non sono i soldi da risarcire alle vittime, ma ricostruire la loro immagine, riabilitarli di fronte al mondo che li ha distrutti”.