Articolo 32 della Costituzione: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Il diritto alla salute della persona reclusa. Dal libro “Diritti dei detenuti e Costituzione” (2002), di Marco Ruotolo. La Costituzione italiana definisce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo” e come “interesse della collettività” (art. 32, 1° comma), delineando due aspetti, quello del diritto e quello dell’interesse, distinti ma coordinati. Lo “stato di salute” non riguarda solo il singolo ma si riflette sulla collettività, per cui la relativa tutela non si esaurisce solo in situazioni attive di pretesa ma “implica e comprende il dovere di non ledere ne porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui”. Il diritto alla salute si configura, più in generale, come valore costituzionale supremo in quanto riconducibile all’integrità psico-fisica della persona (e non considerato solo quale diritto sociale a prestazioni sanitarie), per cui, se la tutela di esso non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone, tuttavia le esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento degli interessi, un peso tale da determinare la compressione del nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana. Il riconoscimento del diritto alla salute quale “valore costituzionale supremo” è il risultato di una evoluzione giurisprudenziale che ha permesso di cogliere le virtualità insite nella generica formulazione costituzionale che sancisce l’impegno della Repubblica a tutelare la salute e a garantire cure gratuite agli indigenti. Virtualità che si esprimono, anche per effetto del raccordo con gli artt. 2 e 3 Cost., nell’affermazione del diritto alla salute come ” diritto soggettivo” protetto contro ogni aggressione ad opera di terzi e suscettibile di una tutela risarcitoria immediata come “danno biologico”, indipendentemente da qualsiasi altra conseguenza dannosa giuridicamente apprezzabile; nonché come ” diritto sociale” la cui pratica attuazione è essenziale per la realizzazione di quel principio di libertà-dignità che connota e conforma l’intelaiatura della nostra Carta costituzionale e trova la sua prima espressione nella lettura integrata degli artt. 2 e 3 Cost. Proprio la singolare connotazione del diritto in parola induce ad invocarne la necessaria tutela nella più ampia misura possibile ossia entro i limiti segnati dall’esigenza di una concomitante tutela di altri interessi e dalla disponibilità di risorse umane e finanziarie nella predisposizione dei servizi sanitari. Sotto quest’ultimo aspetto, tuttavia, occorre ribadire che le esigenze finanziarie non possono legittimare una compressione del nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana. Con specifico riferimento alla posizione del detenuto, viene in rilievo un’altra esigenza, quella della sicurezza, che in concreto può determinare una limitazione nella fruizione del diritto in questione, anzitutto in ordine alla possibilità di scegliere il luogo della cura, che è effettuata dall’amministrazione penitenziaria e dall’autorità giudiziaria tenendo conto proprio delle esigenze di sicurezza nonché dell’adeguatezza o meno del servizio sanitario penitenziario rispetto al caso concreto. Il problema centrale, dunque, con riferimento alle persone recluse, è quello della estensione del “limite” delle esigenze di sicurezza, potenzialmente idoneo ad incidere anche sulle altre espressioni del diritto alla salute inteso come valore supremo, e in special modo sul diritto a trattamenti sanitari, che si traduce nella pretesa all’ottenimento dei trattamenti di miglior livello che, nelle circostanze date, gli operatori sono in grado di1fornire, sul rifiuto d ci trattamenti sanitari non imposti dalla legge, che discende a contrario dall’art. 32 c.p.v., sul diritto a lasciarsi morire, sul divieto di accanimento terapeutico e sul diritto all’ambiente salubre. Tra i molti profili, quello che sembrerebbe assumere minor rilievo è relativo alla salubrità dell’ambiente, data la particolare condizione della persona detenuta che si trova costretta entro l’istituto di pena. Ma occorre aver presente che il termine “ambiente” può riferirsi ad una classe variegata di oggetti e che potrebbe venire qui in rilievo in una connotazione particolare, che si lega alla semplice considerazione per cui “oggi come oggi salute e vita in un ambiente insalubre sono considerate incompatibili l’una con l’altra”, con la conseguenza che anche (se non soprattutto, visto che la “vita” si svolge in questo caso prevalentemente in un ambiente “interno”) negli stabilimenti di pena deve essere assicurata una condizione che non contraddica le suddette esigenze. Il diritto all’ambiente salubre verrebbe dunque in rilievo come diritto a vivere in un ambiente “degno” per una persona umana o, più semplicemente, come diritto a vivere una vita ” degna dell’uomo”. In questo senso, possono richiamarsi le disposizioni dell’ordinamento penitenziario che riguardano le modalità di realizzazione dei nuovi edifici penitenziari, che devono, ad esempio, assicurare la differenziazione tra locali di soggiorno e di pernottamento (artt. 5 e 6 O.P.), nonché, più generale, le prescrizioni rivolte genericamente a salvaguardare la salute del detenuto e a contenere le cause che potrebbero determinare il crearsi di un ambiente insalubre, quali quelle relative al vestiario e al corredo da fornire a ciascun detenuto (art. 7 O.P.), all’uso dei servizi igienici e alle forniture di oggetti necessari alla pulizia personale (art. 8 O.P.), alle caratteristiche dell’alimentazione e alla somministrazione del vitto (art. 9 O.P.), alla permanenza all’aria aperta per un determinato tempo giornaliero (art. 10 O.P.). Un’indagine più approfondita meritano le altre problematiche sopra accennate. Prima di passare ad essa pare, però, opportuno fornire un’indicazione sul metodo che verrà seguito nella trattazione, che d’altra parte ricalca le coordinate generali di questo lavoro. La legittimità delle limitazioni derivanti dalle esigenze di sicurezza verrà, infatti, messa in discussione laddove esse si impongano o pretendano di imporsi fino ad intaccare il “nucleo irriducibile del diritto alla salute” protetto dalla Costituzione. Non solo, la riferibilità del diritto in questione all’ambito inviolabile della dignità umana e la conseguente connotazione di esso come valore supremo idoneo a conformare le scelte legislative e giurisprudenziali assumerà rilievo decisivo per cercare di dare risposte ai problemi che non trovano ancora un puntuale riscontro nel diritto positivo. Siffatto intendimento è, peraltro, confortato dal principio costituzionale dell’umanizzazione e della funzione rieducativa della pena, nonché dalle più volte richiamate previsioni della normativa sopranazionale che proibiscono la sottoposizione del detenuto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, specie ove si afferma che la finalità del trattamento “deve essere quella di salvaguardare la salute e la dignità (art. 3 delle Regole penitenziarie europee
Salute detenuto
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