Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’11 gennaio 2007 – ricorso n. 16098/05
DECISIONE SULLA RICEVIBILITÀ del ricorso n. 16098/05 presentato da L. D. S. contro l’Italia
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (terza sezione), riunita l’11 gennaio 2007 in una camera composta da:
Sigg. B.M. Zupani, presidente,
J. Hedigan,
C. Bîrsan,
V. Zagrebelsky,
E. Myjer,
David ThO’r Björgvinsson,
Sig.ra I. Ziemele, giudici,
e dal sig. V. Berger, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra citato presentato il 18 aprile 2005,
Vista la decisione della Corte di avvalersi dell’articolo 29 § 3 della Convenzione e di esaminare congiuntamente la ricevibilità ed il merito della causa,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle di risposta presentate dal ricorrente,
Dopo averne deliberato, rende la seguente decisione:
IN FATTO
Il ricorrente, sig. L. d. S., è un cittadino italiano, nato nel 1941 e residente a P. Il ricorrente, che è avvocato, è stato autorizzato dal presidente della sezione ad assumere personalmente la difesa dei propri interessi. (articolo 36 § 2 in fine del regolamento). Il governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente, I. M. Braguglia, e dal suo coagente, F. Crisafulli, nonché dal suo cogente aggiunto, N. Lettieri.
1.
Le circostanze della fattispecie
I fatti della causa, così come sono stati esposti dalle parti, posso essere riassunti come segue:
1. La condanna del ricorrente e la revisione del suo processo
Il ricorrente fu accusato di falsa testimonianza. In particolare, nel corso di un processo civile aveva dichiarato di non aver mai concluso un un contratto di locazione per iscritto con un certo signor D.
Con una sentenza nel 12 dicembre 1984, il giudice di P. condannò il ricorrente a sei mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena. A carico del ricorrente pronunciò inoltre l’interdizione dai pubblici uffici. Il giudice ritenne che l’esistenza del contratto controverso era provata dalle dichiarazioni del signor D. e di sua moglie.
Il ricorrente propose appello contestando la credibilità delle testimonianze a carico.
Con una sentenza del 12 aprile 1986, il tribunale di P. confermò la condanna del ricorrente.
Il ricorrente propose ricorso per cassazione, ma tale ricorso venne rigettato con una sentenza del 17 marzo 1988 il cui testo fu depositato in cancelleria il 4 ottobre 1988.
Il ricorrente presentò in seguito alcune richieste di revisione, senza tuttavia ottenere la riapertura del suo processo.
Il 1º giugno 1988, il ricorrente presentò una nuova richiesta di revisione. Egli sostenne che nuove prove dimostravano la sua innocenza. In particolare, da parecchi elementi risultava che il contratto in questione era stato firmato soltanto dal signor D., e non anche dal ricorrente.
Con una ordinanza del 21 dicembre 1999, la corte d’appello di C. dichiarò la richiesta di revisione ammissibile. Con una sentenza del 10 luglio 2000, essa rigettò tuttavia la richiesta del ricorrente ritenendo che quest’ultimo tentasse essenzialmente di ottenere una nuova valutazione delle prove già prodotte nel corso del primo processo.
Il ricorrente propose ricorso per cassazione, ma il ricorso venne respinto il 5 febbraio 2002.
Nel frattempo, il signor D. aveva citato il ricorrente innazi al tribunale di P. al fine di ottenere il risarcimento per i danni morali e materiali provocati dalla falsa testimonianza. Con una sentenza del 20 febbraio 2000, il tribunale aveva accolto questa domanda e aveva condannato il ricorrente a pagare la somma di 3.000.000 di lire (circa 1549 euro) al signor D.
Una nuova richiesta di revisione del ricorrente fu dichiarata inammissibile dalla corte d’appello di C. il 14 ottobre 2003.
Il ricorrente propose ricorso per cassazione.
Con una sentenza del 4 marzo 2004, la Corte di cassazione annullò la decisione impugnata. Essa osservò che la richiesta di revisione era ammissibile se il condannato domandava una valutazione delle prove esistenti che non era mai stata effettuata dal giudice di merito.
Il processo del ricorrente fu riaperto.
Con una sentenza del 14 gennaio 2005, il cui testo fu depositato in cancelleria il 28 gennaio 2005, la corte d’appello di C. annullò la condanna del ricorrente e prosciolse quest’ultimo dall’accusa a suo carico perché il fatto non sussisteva.
La corte d’appello osservò che nel corso dei procedimenti penali e civili, la circostanza che il contratto di locazione fosse stato firmato anche dal ricorrente non era mai stata evocata. Peraltro, quest’ultimo non aveva alcun interesse a rendere una falsa testimonianza. Dal momento che un contratto era “concluso per iscritto” soltanto se era firmato da tutte le parti, non si poteva ritenere che il ricorrente avesse mentito.
Questa decisione divenne definitiva il 1º marzo 2005.
2. Le osservazioni delle parti innanzi alla Corte e le espressioni utilizzate dal ricorrente.
A seguito della comunicazione del ricorso, con una lettera del 22 giugno 2006, il Governo ha fatto pervenire alla Corte le sue osservazioni sulla ricevibilità e sulla fondatezza della causa. Il ricorrente ha replicato il 19 settembre 2006. Ricevuta questa corrispondenza, il Governo ha fatto notare alla Corte che il ricorrente aveva utilizzato delle espressioni “gratuitamente oltraggiose” nei confronti del suo coagente. Esso ha subito domandato che l’interessato venisse invitato a ritirarle.
Il 31 ottobre 2006, il cancelliere di sezione ha inviato al ricorrente una lettera, le cui parti pertinenti recitano quanto segue:
«(&) osservo che il Governo ha domandato alla Corte di ordinare alla prate ricorrente di ritirare le sue espressioni oltraggiose contenute nelle sue osservazioni pervenute in cancelleria il 19 settembre 2006. Ora, dalla lettura delle osservazioni in questione emerge che lei ha effettivamente utilizzato delle parole che ledono l’onore e la reputazione del coagente del Governo. A semplice titolo di esempio, cito le seguenti espressioni : “secondo la infondata opinione del coagente che dimostra la sua volontà malefica di ingannare la Corte”; “secondo il parere interessato e subdolo del coagente&”.
A tale proposito, le ricordo che, se ogni ricorrente ha il diritto di criticare il contenuto delle osservazioni del Governo, resta comunque il fatto che la procedura innanzi alla Corte deve essere ispirata al rispetto per la parte avversa. Pertanto, la invito a farmi pervenire, entro il 1º dicembre 2006, una nuova versione delle sue osservazioni, dopo aver eliminato qualsiasi espressione offensiva. In mancanza di ciò, la corte provvederà d’ufficio a tale eliminazione. Essa potrà anche ritenere che la sua richiesta è abusiva ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione e decidere di dichiararla irricevibile.
Richiamo anche la sua attenzione sull’articolo 44D del regolamento della Corte, ai sensi del quale “se il rappresentante di una parte formula delle osservazioni abusive, frivole, vessatorie o prolisse, il presidente della camera può escluderlo dalla procedura, rifiutare di ammettere in tutto o in parte le osservazioni in causa o emettere qualsiasi ordinanza ritenuta idonea dal giudice, senza pregiudizio dell’articolo 35 § 3 della Convenzione»
Con una lettera del 22 novembre 2006, il ricorrente ha invitato la Corte ad ordinare al Governo di indicare le presunte espressioni oltraggiose che avrebbe utilizzato; soltanto in questo caso, il ricorrente sarebbe pronto a ritirarle, dopo averne esaminato il contenuto. Peraltro, il Governo avrebbe evitato di fornire tali indicazioni “al fine di non essere smentito clamorosamente e con ludibrio dal ricorrente”. Quest’ultimo ritiene di non avere ecceduto nell’esercizio del suo diritto di critica di fronte “agli errori molto evidenti (&) deliberatamente inseriti, al fine di provocare la reazione legittima del ricorrente, nelle osservazioni del cogente”. Secondo il parere del ricorrente, non ci si può nascondere dietro “il Galateo di Monsignor della Casa o l’etichetta formalista del vecchio re dei Borboni”.
Il ricorrente sostiene inoltre che il Governo dovrebbe essere costretto a ritirare tutte le sue citazione della giurisprudenza della Corte perché non vi sono indicazioni sulla data delle sentenze e sui numeri dei ricorsi. Questo costituisce una mancanza di deontologia. Infine, l’interpretazione data dal Governo alle disposizioni interne pertinenti sarebbe “falsa” ed il ricorrente si sentirebbe “personalmente offeso” dalle tesi giuridiche del Governo , di cui alcune sarebbero “provocatrici”.
2. Il diritto interno pertinente
L’articolo 643 del codice di procedura penale (“il CPP”) ammette la riparazione dell’errore giudiziario. Il primo comma di questa norma recita:
“Chi è risultato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all’errore giudiziario, ha diritto a una riparazione commisurata alla durata della eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna.”
L’articolo 2 § 1 della legge n. 117 del 13 aprile 1988 (legge sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.) dispone:
“Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
MOTIVI DI RICORSO Invocando l’articolo 3 del Protocollo n. 7, il ricorrente allega una violazione del suo diritto alla riparazione in caso di errore giudiziario.
IN DIRITTO
Il ricorrente lamenta di non poter ottenere una riparazione per l’errore giudiziario di cui è stato oggetto. Egli osserva che essendo stato condannato ad una pena la cui esecuzione è stata sospesa, non è stato privato della sua libertà. Quindi l’articolo 643 § 1 del CPP e l’articolo 2 § 1 della legge n. 117 del 13 aprile 1988 non devono essere applicati. Egli invoca l’articolo 3 del Protocollo n. 7 così formulato:
“Qualora una condanna penale definitiva sia successivamente annullata o qualora la grazia sia concessa perchè un fatto sopravvenuto o nuove rivelazioni comprovano che vi è stato un errore giudiziario, la persona che ha subito una pena in ragione di tale condanna sarà risarcita, conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato, a meno che non sia provato che la mancata rivelazione in tempo utile del fatto non conosciuto le sia interamente o parzialmente imputabile”
Il Governo si oppone a questa tesi.
1.
Argomenti delle parti
1. Eccezione del Governo basata sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interne
Il Governo eccepisce innanzitutto il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Esso osserva che ai sensi dell’articolo 643 del CPP, il diritto al risarcimento è sottoposto a due condizioni, in particolare: che colui che presenta la domanda abbia subìto l’esecuzione di una pena o che abbia subìto conseguenze personali o familiari derivanti dalla condanna. Poiché queste condizioni non sono cumulabili, per ottenere il risarcimento è sufficiente una sola di esse.
Ora, il ricorrente avrebbe potuto provare che la sua condanna aveva avuto delle ripercussioni “personali” o “familiari” indipendenti dall’esecuzione di una pena. Certo, la prova di tali ripercussioni in un caso come la presente fattispecie in cui la condanna non ha avuto alcuna conseguenza concreta avrebbe potuto presentare qualche difficoltà. Tuttavia, l’efficacia e l’adeguatezza di una via di ricorso non dipendono dalla certezza di un esito favorevole, essendo sufficiente, al contrario, che essa non sia destinata ad un sicuro insuccesso.
Il Governo ritiene anche che per ottenere il risarcimento di qualsiasi pregiudizio materiale eventualmente subìto, il ricorrente avrebbe potuto avvalersi delle disposizioni della legge n. 117 del 1988, allegando il dolo o la colpa grave dei magistrati che hanno pronunciato la sua condanna.
Il ricorrente si oppone alle tesi del Governo. Egli osserva che l’articolo 643 del CPP prevede due condizioni cumulabili e non alternative per ottenere il risarcimento dell’errore giudiziario, ossia l’esecuzione della pena e l’esistenza di conseguenze personali e familiari per il condannato. Questo risulta chiaramente dalla congiunzione “e” che raccorda le due parti dell’articolo in questione e sarebbe confermato dalla giurisprudenza interna pertinente.
Per quanto riguarda l’articolo 2 della legge n. 117 del 1988, si tratta di una norma che prevede il risarcimento dei danni “derivanti da una privazione della libertà personale”. Peraltro, circa 50 giudici si sono occupati della causa del ricorrente. Quest’ultimo avrebbe dunque dovuto avviare 50 procedimenti diversi. Questi ultimi sarebbero durati a lungo, si sarebbero articolati su più gradi di giurisdizione e, probabilmente, sarebbero terminati con il rigetto delle pretese del richiedente. In effetti, nulla prova che i giudici in questione non abbiano agito in buona fede.
2. Nel merito del motivo di ricorso
Il Governo osserva che quando viene concessa la sospensione condizionale della pena, vi è sospensione dell’esecuzione di qualsiasi pena principale (detenzione o sanzione pecuniaria) nonché di qualsiasi pena accessoria (interdizione dai pubblici uffici). Inoltre, l’articolo 175 del codice penale (“il CP”) prevede che inflitta non venga fatta menzione della condannna nel certificato penale domandato dall’interessato.
Nel caso di specie, il ricorrente ha beneficiato sia della sospensione condizionale dell’esecuzione della sua pena, sia della non menzione di quest’ultima. La sua condanna è quindi rimasta lettera morta. In effetti non è stata eseguita nessuna pena (né quella principale, né quella accessoria) e la non menzione nel casellario giudiziale ha posto l’interessato al riparo da qualsiasi conseguenza sul piano morale.
Pertanto, le evenutali azioni per risarcimento avviate dal ricorrente avrebbero potuto scontrarsi con un rigetto nel merito per l’inesistenza di un danno o per mancanza di prove di un tale pregiudizio.
Secondo il parere del Governo, non potrebbe esservi violazione dei principi della Convenzion per il semplice fatto che l’ordinamento giuridico interno rifiuta di risarcire un individuo per un pregiudizio inesistente o non provato. Nonostante le differenze nella la loro formulazione, gli articoli 3 del Protollo n. 7 e 643 del CPP sottopongno il diritto alla riparazione per errore giudiziario alle stesse condizioni. La prima disposizione esige che il condannato abbia “subìto una pena”, ossia che quest’ultima sia stata eseguita; la seconda prevede che la riparazione sia “proporzionata alla durata della pena eventualmente scontata”, presupponendo così l’applicazione della sanzione.
Peraltro, l’articolo 3 del Protocollo n. 7 lascia agli Stati contraenti un ampio margine di valutazione per quanto riguarda le condizioni relative alla concessione del risarcimento, precisando che quest’ultimo è accordato “conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato”. Le parti contraenti sarebbero quindi libere di adattare il risarcimento per errore giudiziario alla natura ed alle conseguenze di quest’ultima. Ora, l’articolo 643 del CPP andrebbe ben al di là di quanto richiesto dalla Convenzione perché permette, anche in assenza dell’esecuzione di una pena, di ottenere un risarcimento danni per le eventuali conseguenze personali o familiari derivanti dalla condanna.
Il ricorrente si oppone alle tesi del Governo. Esso sottolinea innanzitutto che la non menzione della condanna riguarda unicamente i certificati del casellario giudiziale richiesti dall’interessato. Tuttavia la condanna appare su qualsiasi altro certificato richiesto dalla magistratura, dalla pubblica amministrazione e dagli ordini professionali. Il ricorrente, un avvocato che esercita una libera professione, ha quindi subìto gravi conseguenze personali, familiari e professionali. Sarebbe pertanto sbagliato sostenere che la sua condanna sia “rimasta lettera morta”.
Certo, il ricorrente non è stato privato della sua libertà; rimane comunque il fatto che è stato ritenuto colpevole di un reato “molto grave”, fatto che ha comportato una significativa perdita di clienti. Inoltre, la madre del ricorrente si è sentita responsabile delle vicissitudini giudiziarie di suo figlio e di conseguenza avrebbe contratto una malattia psicosomatica, ossia una forma di cancro, che ne ha provocato il decesso. Il ricorrente stesso avrebbe somatizzato la situazione e sarebbe per questo invecchiato precocemente.
Secondo il parere del ricorrente, sarebbe anche sbagliato affermare che ogni pena accessoria, e soprattutto l’interdizione dai pubblici uffici”, non sia stata eseguita nei suoi confronti. In realtà, in ragione della sua condanna, il ricorrente non ha potuto esercitare nessuna funzione pubblica.
Il ricorrente contesta infine l’interpretazione data dal Governo all’articolo 3 del Protocollo n. 7, secondo la quale il diritto al risarcimento previsto da questa norma scaturirebbe soltanto qualora la pena fosse stata eseguita.
2. Valutazione della Corte
La Corte deve innanzitutto determinare se le espressioni utilizzate dal ricorrente nelle sue osservazioni di risposta pervenute in cancelleria il 19 settembre 2006 costituissero un abuso del diritto di ricorso individuale.
La Corte ricorda che se non vi è alcun dubbio che l’uso di un linguaggio offensivo nel procedimento innanzi alla Corte sia fuori luogo, salvo casi eccezionali, un ricorso può essere rigettato in quanto abusivo solo se sia stato basato consapevolmente su fatti inventati di sana pianta (Varbanov c. Bulgaria, n. 31365/96, § 36, CEDH 2000-X, e Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, p. 1206, §§ 53-54). Tuttavia, nel presente caso, la Corte ritiene che le affermazioni del ricorrente siano intollerabili e che l’interessato abbia superato i limiti di una critica normale, civica e legittima. Il comportamento del ricorrente potrebbe essere qualificato, in sostanza, di contempt of court (oltraggio alla corte; voir, mutatis mutandis, ?ehA’k c. République Tcheque (dec.), n. 67208/01, 18 maggio 2004).
La Corte ha esaminato il contenuto delle osservazioni del Governo senza trovarvi alcuna espressione che, cono sostiene il ricorrrente, potresse essere considerata offensiva nei suoi confronti. Al contrario, il coagente del Governo si è limitato a dare la sua interpretazione sulle disposizioni interne pertinenti e sull’articolo 3 del Protocollo n. 7.
Certo, il ricorrente ha il diritto di non condividere tale interpretazione e in effetti ha presentato numerosi argomenti giuridici e fattuali per contestarla. Tuttavia, in alcuni passaggi delle sue osservazioni di risposta l’interessato si è lasciato andare ad un attacco personale nei confronti del coagente, utilizzando delle espressioni che la Corte considera oltraggiose.
La Corte attribuisce anche importanza al fatto che il ricorrente è un avvocato e che il cancelliere di sezione ha richiamato la sua attenzione sul carattere intollerabile delle sue osservazioni e lo ha invitato a ritirarle. Così, il ricorrente si è visto offrire la possibilità di eliminare dalle sue osservazioni qualsiasi espressione che, senza toccare la sostanza delle sue tesi, può essere considerata un attacco gratuito e personale nei confronti del rappresentante del Governo.
Anziché cogliere questa occasione, il ricorrente ha domandato alla Corte di ordinare al Governo di indicare le presunte espressioni oltraggiose, nonostante queste ultime risultassero chiaramente dalla lettera del cancelliere di sezione del 31 ottobre 2006. Si è successivamente lasciato andare ad una inutile polemica sulla deontologia del reappresentante del Governo, reiterando le sue affermazioni secondo le quali quest’ultimo avrebbe deliberatamente inserito degli errori nelle sue osservazioni al fine di provocare la parte avversa.
Secondo il parere della Corte, la condotta del ricorrente è contraria alla vocazione del diritto di ricorso individuale, quale previsto dalle disposizioni degli articoli 34 e 35 della Convenzione. Essa è abusiva ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convezione (vedere, mutatis mutandis, Duringer e altri c. Francia (dec.), n. 61164/00, CEDH 2003-II, e ?ehA’k, decisione precitata).
Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato irricevibile in quanto abusivo ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione.
Per questi motivi, la Corte, a maggioranza,
Dichiara il ricorso irricevibile.
Vincent Berger
Cancelliere
Boštjan M. Zupan?i?
Presidente
Itinerari a tema
* Tutela dei diritti umani in sede di Consiglio d’Europa
Link esterni
* Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo
Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’11 gennaio 2007 – ricorso n. 16098/05
DECISIONE SULLA RICEVIBILITÀ del ricorso n. 16098/05 presentato da L. D. S. contro l’Italia
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (terza sezione), riunita l’11 gennaio 2007 in una camera composta da:
Sigg. B.M. Zupani, presidente,
J. Hedigan,
C. Bîrsan,
V. Zagrebelsky,
E. Myjer,
David ThO’r Björgvinsson,
Sig.ra I. Ziemele, giudici,
e dal sig. V. Berger, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra citato presentato il 18 aprile 2005,
Vista la decisione della Corte di avvalersi dell’articolo 29 § 3 della Convenzione e di esaminare congiuntamente la ricevibilità ed il merito della causa,
Viste le osservazioni sottoposte dal governo convenuto e quelle di risposta presentate dal ricorrente,
Dopo averne deliberato, rende la seguente decisione:
IN FATTO
Il ricorrente, sig. L. d. S., è un cittadino italiano, nato nel 1941 e residente a P. Il ricorrente, che è avvocato, è stato autorizzato dal presidente della sezione ad assumere personalmente la difesa dei propri interessi. (articolo 36 § 2 in fine del regolamento). Il governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente, I. M. Braguglia, e dal suo coagente, F. Crisafulli, nonché dal suo cogente aggiunto, N. Lettieri.
1.
Le circostanze della fattispecie
I fatti della causa, così come sono stati esposti dalle parti, posso essere riassunti come segue:
1. La condanna del ricorrente e la revisione del suo processo
Il ricorrente fu accusato di falsa testimonianza. In particolare, nel corso di un processo civile aveva dichiarato di non aver mai concluso un un contratto di locazione per iscritto con un certo signor D. Con una sentenza nel 12 dicembre 1984, il giudice di P. condannò il ricorrente a sei mesi di reclusione con sospensione condizionale della pena. A carico del ricorrente pronunciò inoltre l’interdizione dai pubblici uffici. Il giudice ritenne che l’esistenza del contratto controverso era provata dalle dichiarazioni del signor D. e di sua moglie.
Il ricorrente propose appello contestando la credibilità delle testimonianze a carico.
Con una sentenza del 12 aprile 1986, il tribunale di P. confermò la condanna del ricorrente.
Il ricorrente propose ricorso per cassazione, ma tale ricorso venne rigettato con una sentenza del 17 marzo 1988 il cui testo fu depositato in cancelleria il 4 ottobre 1988.
Il ricorrente presentò in seguito alcune richieste di revisione, senza tuttavia ottenere la riapertura del suo processo.
Il 1º giugno 1988, il ricorrente presentò una nuova richiesta di revisione. Egli sostenne che nuove prove dimostravano la sua innocenza. In particolare, da parecchi elementi risultava che il contratto in questione era stato firmato soltanto dal signor D., e non anche dal ricorrente.
Con una ordinanza del 21 dicembre 1999, la corte d’appello di C. dichiarò la richiesta di revisione ammissibile. Con una sentenza del 10 luglio 2000, essa rigettò tuttavia la richiesta del ricorrente ritenendo che quest’ultimo tentasse essenzialmente di ottenere una nuova valutazione delle prove già prodotte nel corso del primo processo.
Il ricorrente propose ricorso per cassazione, ma il ricorso venne respinto il 5 febbraio 2002.
Nel frattempo, il signor D. aveva citato il ricorrente innazi al tribunale di P. al fine di ottenere il risarcimento per i danni morali e materiali provocati dalla falsa testimonianza. Con una sentenza del 20 febbraio 2000, il tribunale aveva accolto questa domanda e aveva condannato il ricorrente a pagare la somma di 3.000.000 di lire (circa 1549 euro) al signor D.
Una nuova richiesta di revisione del ricorrente fu dichiarata inammissibile dalla corte d’appello di C. il 14 ottobre 2003.
Il ricorrente propose ricorso per cassazione.
Con una sentenza del 4 marzo 2004, la Corte di cassazione annullò la decisione impugnata. Essa osservò che la richiesta di revisione era ammissibile se il condannato domandava una valutazione delle prove esistenti che non era mai stata effettuata dal giudice di merito.
Il processo del ricorrente fu riaperto.
Con una sentenza del 14 gennaio 2005, il cui testo fu depositato in cancelleria il 28 gennaio 2005, la corte d’appello di C. annullò la condanna del ricorrente e prosciolse quest’ultimo dall’accusa a suo carico perché il fatto non sussisteva.
La corte d’appello osservò che nel corso dei procedimenti penali e civili, la circostanza che il contratto di locazione fosse stato firmato anche dal ricorrente non era mai stata evocata. Peraltro, quest’ultimo non aveva alcun interesse a rendere una falsa testimonianza. Dal momento che un contratto era “concluso per iscritto” soltanto se era firmato da tutte le parti, non si poteva ritenere che il ricorrente avesse mentito.
Questa decisione divenne definitiva il 1º marzo 2005.
2. Le osservazioni delle parti innanzi alla Corte e le espressioni utilizzate dal ricorrente.
A seguito della comunicazione del ricorso, con una lettera del 22 giugno 2006, il Governo ha fatto pervenire alla Corte le sue osservazioni sulla ricevibilità e sulla fondatezza della causa. Il ricorrente ha replicato il 19 settembre 2006. Ricevuta questa corrispondenza, il Governo ha fatto notare alla Corte che il ricorrente aveva utilizzato delle espressioni “gratuitamente oltraggiose” nei confronti del suo coagente. Esso ha subito domandato che l’interessato venisse invitato a ritirarle.
Il 31 ottobre 2006, il cancelliere di sezione ha inviato al ricorrente una lettera, le cui parti pertinenti recitano quanto segue:
«(&) osservo che il Governo ha domandato alla Corte di ordinare alla prate ricorrente di ritirare le sue espressioni oltraggiose contenute nelle sue osservazioni pervenute in cancelleria il 19 settembre 2006. Ora, dalla lettura delle osservazioni in questione emerge che lei ha effettivamente utilizzato delle parole che ledono l’onore e la reputazione del coagente del Governo. A semplice titolo di esempio, cito le seguenti espressioni : “secondo la infondata opinione del coagente che dimostra la sua volontà malefica di ingannare la Corte”; “secondo il parere interessato e subdolo del coagente&”.
A tale proposito, le ricordo che, se ogni ricorrente ha il diritto di criticare il contenuto delle osservazioni del Governo, resta comunque il fatto che la procedura innanzi alla Corte deve essere ispirata al rispetto per la parte avversa. Pertanto, la invito a farmi pervenire, entro il 1º dicembre 2006, una nuova versione delle sue osservazioni, dopo aver eliminato qualsiasi espressione offensiva. In mancanza di ciò, la corte provvederà d’ufficio a tale eliminazione. Essa potrà anche ritenere che la sua richiesta è abusiva ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione e decidere di dichiararla irricevibile.
Richiamo anche la sua attenzione sull’articolo 44D del regolamento della Corte, ai sensi del quale “se il rappresentante di una parte formula delle osservazioni abusive, frivole, vessatorie o prolisse, il presidente della camera può escluderlo dalla procedura, rifiutare di ammettere in tutto o in parte le osservazioni in causa o emettere qualsiasi ordinanza ritenuta idonea dal giudice, senza pregiudizio dell’articolo 35 § 3 della Convenzione»
Con una lettera del 22 novembre 2006, il ricorrente ha invitato la Corte ad ordinare al Governo di indicare le presunte espressioni oltraggiose che avrebbe utilizzato; soltanto in questo caso, il ricorrente sarebbe pronto a ritirarle, dopo averne esaminato il contenuto. Peraltro, il Governo avrebbe evitato di fornire tali indicazioni “al fine di non essere smentito clamorosamente e con ludibrio dal ricorrente”. Quest’ultimo ritiene di non avere ecceduto nell’esercizio del suo diritto di critica di fronte “agli errori molto evidenti (&) deliberatamente inseriti, al fine di provocare la reazione legittima del ricorrente, nelle osservazioni del cogente”. Secondo il parere del ricorrente, non ci si può nascondere dietro “il Galateo di Monsignor della Casa o l’etichetta formalista del vecchio re dei Borboni”.
Il ricorrente sostiene inoltre che il Governo dovrebbe essere costretto a ritirare tutte le sue citazione della giurisprudenza della Corte perché non vi sono indicazioni sulla data delle sentenze e sui numeri dei ricorsi. Questo costituisce una mancanza di deontologia. Infine, l’interpretazione data dal Governo alle disposizioni interne pertinenti sarebbe “falsa” ed il ricorrente si sentirebbe “personalmente offeso” dalle tesi giuridiche del Governo , di cui alcune sarebbero “provocatrici”.
2. Il diritto interno pertinente
L’articolo 643 del codice di procedura penale (“il CPP”) ammette la riparazione dell’errore giudiziario. Il primo comma di questa norma recita:
“Chi è risultato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all’errore giudiziario, ha diritto a una riparazione commisurata alla durata della eventuale espiazione della pena o internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna.”
L’articolo 2 § 1 della legge n. 117 del 13 aprile 1988 (legge sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.) dispone:
“Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
MOTIVI DI RICORSO
Invocando l’articolo 3 del Protocollo n. 7, il ricorrente allega una violazione del suo diritto alla riparazione in caso di errore giudiziario.
IN DIRITTO
Il ricorrente lamenta di non poter ottenere una riparazione per l’errore giudiziario di cui è stato oggetto. Egli osserva che essendo stato condannato ad una pena la cui esecuzione è stata sospesa, non è stato privato della sua libertà. Quindi l’articolo 643 § 1 del CPP e l’articolo 2 § 1 della legge n. 117 del 13 aprile 1988 non devono essere applicati. Egli invoca l’articolo 3 del Protocollo n. 7 così formulato:
“Qualora una condanna penale definitiva sia successivamente annullata o qualora la grazia sia concessa perchè un fatto sopravvenuto o nuove rivelazioni comprovano che vi è stato un errore giudiziario, la persona che ha subito una pena in ragione di tale condanna sarà risarcita, conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato, a meno che non sia provato che la mancata rivelazione in tempo utile del fatto non conosciuto le sia interamente o parzialmente imputabile”
Il Governo si oppone a questa tesi.
1.
Argomenti delle parti
1. Eccezione del Governo basata sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interne
Il Governo eccepisce innanzitutto il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Esso osserva che ai sensi dell’articolo 643 del CPP, il diritto al risarcimento è sottoposto a due condizioni, in particolare: che colui che presenta la domanda abbia subìto l’esecuzione di una pena o che abbia subìto conseguenze personali o familiari derivanti dalla condanna. Poiché queste condizioni non sono cumulabili, per ottenere il risarcimento è sufficiente una sola di esse.
Ora, il ricorrente avrebbe potuto provare che la sua condanna aveva avuto delle ripercussioni “personali” o “familiari” indipendenti dall’esecuzione di una pena. Certo, la prova di tali ripercussioni in un caso come la presente fattispecie in cui la condanna non ha avuto alcuna conseguenza concreta avrebbe potuto presentare qualche difficoltà. Tuttavia, l’efficacia e l’adeguatezza di una via di ricorso non dipendono dalla certezza di un esito favorevole, essendo sufficiente, al contrario, che essa non sia destinata ad un sicuro insuccesso.
Il Governo ritiene anche che per ottenere il risarcimento di qualsiasi pregiudizio materiale eventualmente subìto, il ricorrente avrebbe potuto avvalersi delle disposizioni della legge n. 117 del 1988, allegando il dolo o la colpa grave dei magistrati che hanno pronunciato la sua condanna.
Il ricorrente si oppone alle tesi del Governo. Egli osserva che l’articolo 643 del CPP prevede due condizioni cumulabili e non alternative per ottenere il risarcimento dell’errore giudiziario, ossia l’esecuzione della pena e l’esistenza di conseguenze personali e familiari per il condannato. Questo risulta chiaramente dalla congiunzione “e” che raccorda le due parti dell’articolo in questione e sarebbe confermato dalla giurisprudenza interna pertinente.
Per quanto riguarda l’articolo 2 della legge n. 117 del 1988, si tratta di una norma che prevede il risarcimento dei danni “derivanti da una privazione della libertà personale”. Peraltro, circa 50 giudici si sono occupati della causa del ricorrente. Quest’ultimo avrebbe dunque dovuto avviare 50 procedimenti diversi. Questi ultimi sarebbero durati a lungo, si sarebbero articolati su più gradi di giurisdizione e, probabilmente, sarebbero terminati con il rigetto delle pretese del richiedente. In effetti, nulla prova che i giudici in questione non abbiano agito in buona fede.
2. Nel merito del motivo di ricorso
Il Governo osserva che quando viene concessa la sospensione condizionale della pena, vi è sospensione dell’esecuzione di qualsiasi pena principale (detenzione o sanzione pecuniaria) nonché di qualsiasi pena accessoria (interdizione dai pubblici uffici). Inoltre, l’articolo 175 del codice penale (“il CP”) prevede che inflitta non venga fatta menzione della condannna nel certificato penale domandato dall’interessato.
Nel caso di specie, il ricorrente ha beneficiato sia della sospensione condizionale dell’esecuzione della sua pena, sia della non menzione di quest’ultima. La sua condanna è quindi rimasta lettera morta. In effetti non è stata eseguita nessuna pena (né quella principale, né quella accessoria) e la non menzione nel casellario giudiziale ha posto l’interessato al riparo da qualsiasi conseguenza sul piano morale.
Pertanto, le evenutali azioni per risarcimento avviate dal ricorrente avrebbero potuto scontrarsi con un rigetto nel merito per l’inesistenza di un danno o per mancanza di prove di un tale pregiudizio.
Secondo il parere del Governo, non potrebbe esservi violazione dei principi della Convenzion per il semplice fatto che l’ordinamento giuridico interno rifiuta di risarcire un individuo per un pregiudizio inesistente o non provato. Nonostante le differenze nella la loro formulazione, gli articoli 3 del Protollo n. 7 e 643 del CPP sottopongno il diritto alla riparazione per errore giudiziario alle stesse condizioni. La prima disposizione esige che il condannato abbia “subìto una pena”, ossia che quest’ultima sia stata eseguita; la seconda prevede che la riparazione sia “proporzionata alla durata della pena eventualmente scontata”, presupponendo così l’applicazione della sanzione.
Peraltro, l’articolo 3 del Protocollo n. 7 lascia agli Stati contraenti un ampio margine di valutazione per quanto riguarda le condizioni relative alla concessione del risarcimento, precisando che quest’ultimo è accordato “conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato”. Le parti contraenti sarebbero quindi libere di adattare il risarcimento per errore giudiziario alla natura ed alle conseguenze di quest’ultima. Ora, l’articolo 643 del CPP andrebbe ben al di là di quanto richiesto dalla Convenzione perché permette, anche in assenza dell’esecuzione di una pena, di ottenere un risarcimento danni per le eventuali conseguenze personali o familiari derivanti dalla condanna.
Il ricorrente si oppone alle tesi del Governo. Esso sottolinea innanzitutto che la non menzione della condanna riguarda unicamente i certificati del casellario giudiziale richiesti dall’interessato. Tuttavia la condanna appare su qualsiasi altro certificato richiesto dalla magistratura, dalla pubblica amministrazione e dagli ordini professionali. Il ricorrente, un avvocato che esercita una libera professione, ha quindi subìto gravi conseguenze personali, familiari e professionali. Sarebbe pertanto sbagliato sostenere che la sua condanna sia “rimasta lettera morta”.
Certo, il ricorrente non è stato privato della sua libertà; rimane comunque il fatto che è stato ritenuto colpevole di un reato “molto grave”, fatto che ha comportato una significativa perdita di clienti. Inoltre, la madre del ricorrente si è sentita responsabile delle vicissitudini giudiziarie di suo figlio e di conseguenza avrebbe contratto una malattia psicosomatica, ossia una forma di cancro, che ne ha provocato il decesso. Il ricorrente stesso avrebbe somatizzato la situazione e sarebbe per questo invecchiato precocemente.
Secondo il parere del ricorrente, sarebbe anche sbagliato affermare che ogni pena accessoria, e soprattutto l’interdizione dai pubblici uffici”, non sia stata eseguita nei suoi confronti. In realtà, in ragione della sua condanna, il ricorrente non ha potuto esercitare nessuna funzione pubblica.
Il ricorrente contesta infine l’interpretazione data dal Governo all’articolo 3 del Protocollo n. 7, secondo la quale il diritto al risarcimento previsto da questa norma scaturirebbe soltanto qualora la pena fosse stata eseguita.
2. Valutazione della Corte
La Corte deve innanzitutto determinare se le espressioni utilizzate dal ricorrente nelle sue osservazioni di risposta pervenute in cancelleria il 19 settembre 2006 costituissero un abuso del diritto di ricorso individuale.
La Corte ricorda che se non vi è alcun dubbio che l’uso di un linguaggio offensivo nel procedimento innanzi alla Corte sia fuori luogo, salvo casi eccezionali, un ricorso può essere rigettato in quanto abusivo solo se sia stato basato consapevolmente su fatti inventati di sana pianta (Varbanov c. Bulgaria, n. 31365/96, § 36, CEDH 2000-X, e Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, p. 1206, §§ 53-54). Tuttavia, nel presente caso, la Corte ritiene che le affermazioni del ricorrente siano intollerabili e che l’interessato abbia superato i limiti di una critica normale, civica e legittima. Il comportamento del ricorrente potrebbe essere qualificato, in sostanza, di contempt of court (oltraggio alla corte; voir, mutatis mutandis, ?ehA’k c. République Tcheque (dec.), n. 67208/01, 18 maggio 2004).
La Corte ha esaminato il contenuto delle osservazioni del Governo senza trovarvi alcuna espressione che, cono sostiene il ricorrrente, potresse essere considerata offensiva nei suoi confronti. Al contrario, il coagente del Governo si è limitato a dare la sua interpretazione sulle disposizioni interne pertinenti e sull’articolo 3 del Protocollo n. 7.
Certo, il ricorrente ha il diritto di non condividere tale interpretazione e in effetti ha presentato numerosi argomenti giuridici e fattuali per contestarla. Tuttavia, in alcuni passaggi delle sue osservazioni di risposta l’interessato si è lasciato andare ad un attacco personale nei confronti del coagente, utilizzando delle espressioni che la Corte considera oltraggiose.
La Corte attribuisce anche importanza al fatto che il ricorrente è un avvocato e che il cancelliere di sezione ha richiamato la sua attenzione sul carattere intollerabile delle sue osservazioni e lo ha invitato a ritirarle. Così, il ricorrente si è visto offrire la possibilità di eliminare dalle sue osservazioni qualsiasi espressione che, senza toccare la sostanza delle sue tesi, può essere considerata un attacco gratuito e personale nei confronti del rappresentante del Governo.
Anziché cogliere questa occasione, il ricorrente ha domandato alla Corte di ordinare al Governo di indicare le presunte espressioni oltraggiose, nonostante queste ultime risultassero chiaramente dalla lettera del cancelliere di sezione del 31 ottobre 2006. Si è successivamente lasciato andare ad una inutile polemica sulla deontologia del reappresentante del Governo, reiterando le sue affermazioni secondo le quali quest’ultimo avrebbe deliberatamente inserito degli errori nelle sue osservazioni al fine di provocare la parte avversa.
Secondo il parere della Corte, la condotta del ricorrente è contraria alla vocazione del diritto di ricorso individuale, quale previsto dalle disposizioni degli articoli 34 e 35 della Convenzione. Essa è abusiva ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convezione (vedere, mutatis mutandis, Duringer e altri c. Francia (dec.), n. 61164/00, CEDH 2003-II, e ?ehA’k, decisione precitata).
Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato irricevibile in quanto abusivo ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione.
Per questi motivi, la Corte, a maggioranza,
Dichiara il ricorso irricevibile.
Vincent Berger
Cancelliere
Boštjan M. Zupan?i?
Presidente
Itinerari a tema
* Tutela dei diritti umani in sede di Consiglio d’Europa
Link esterni
* Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo
Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 29 settembre 2005
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo (terza sezione), riunitasi il 29 settembre 2005 in camera alla presenza di
B.M. Zupan?i?, presidente,
J. Hedigan,
L. Caflisch,
C. Bîrsan,
V. Zagrebelsky,
R. Jaeger,
I. Ziemele, giudici,
e di V. Berger, cancelliere della Sezione,
Visto il ricorso succitato presentato il 15 febbraio 2002,
Viste le osservazioni presentate dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dai ricorrenti,
Dopo aver deliberato, pronunzia la seguente decisione:
IN FATTO
I ricorrenti, i sigg. &&&&&&. (“il primo ricorrente”) che agisce altresì in nome e per conto della figlia …………, nata nel 1991, &&&&&&&&& (“il secondo ricorrente”), &&&&.(“la terza ricorrente”), &&&&&& (“il quarto ricorrente”) e &&&&&..(“il quinto ricorrente”), sono cittadini italiani, nati rispettivamente nel 1960, 1991, 1953, 1954, 1985, 1992 e residenti a &&&&. Sono rappresentati dinanzi alla Corte dall’Avv. &&&&& del foro di &&.
Il Governo è rappresentato dai suoi agenti successivi, rispettivamente U. Leanza e I.M. Braguglia, e dal suo coagente, F. Crisafulli.
1. Le circostanze della fattispecie
I fatti della causa, così come sono stati esposti dalle parti, possono essere riassunti come segue.
Il presente procedimento riguarda l’allontanamento di &&., nata nel 1991, in nome del quale il primo ricorrente, il padre, ha altresì presentato l’attuale ricorso. Gli altri ricorrenti sono il fratello del ricorrente, la cognata, e i due nipoti.
1. Il procedimento penale contro il primo ricorrente
Il 4 agosto 1993, fu assassinata la sig.ra &&.. moglie del primo ricorrente e madre di &&…. Diversi elementi portavano a pensare che l’omicidio fosse avvenuto tra le 11 e 30 e le 12 00 (o in un intervallo di tempo vicino) nell’appartamento della sig.ra &&…, con cui il ricorrente aveva una relazione extraconiugale. Successivamente, fu avviato un procedimento penale contro il ricorrente e la sig.ra &&&..
Dal 7 agosto all’8 novembre 1993, il ricorrente fu interrogato quattro volte dal procuratore della Repubblica di &&… Il ricorrente negò di aver partecipato all’omicidio e dichiarò che il 4 agosto 1993 si era recato all’istituto superiore di polizia, in cui lavorava, e che si era assentato soltanto tra le ore 10 e le ore 11 e 30 per fare un doppione di alcune chiavi e depositare dei documenti al catasto. In particolare indicò che mancava un timbro per completare il fascicolo della persona davanti a lui nella fila d’attesa all’ufficio del catasto, il che aveva provocato una discussione con un impiegato. Il ricorrente non era però in grado di indicare l’identità di tale persona.
Gli orari dell’assenza del ricorrente dall’istituto superiore di polizia furono successivamente confermati dalle dichiarazioni dei suoi colleghi. Nel corso del procedimento, il ricorrente presentò copia dei documenti che sosteneva di aver depositato al catasto il giorno dell’omicidio, su cui vi era un timbro di ricezione.
Durante gli interrogatori, la sig.ra &&… dichiarò che l’omicidio era stato commesso dal ricorrente e che quest’ultimo aveva poi chiesto di far sparire il cadavere.
In data imprecisata, il ricorrente e la sig.ra &&… furono rinviati a giudizio dinanzi alla corte d’assise di &&& per omicidio con premeditazione ed occultamento di cadavere.
Nel corso dell’udienza del 28 ottobre 1994, il ricorrente chiese, ai sensi dell’articolo 507 del codice di procedura penale (“il CPP”), la convocazione e l’esame del sig. &&. in qualità di testimone a discarico, sostenendo in particolare che quest’ultimo era la persona davanti a lui nella fila al catasto il giorno dell’omicidio e che poteva confermare i fatti dichiarati durante gli interrogatori; non era stato possibile inserire il suo nome nella lista dei testimoni in quanto la sua identità era stata scoperta tardivamente in seguito a una lunga ricerca.
Con ordinanza del 28 ottobre 1994, la corte d’assise di &&& respinse la richiesta del ricorrente poiché l’esame del sig. &&. non era “assolutamente necessario” (articolo 507 del CPP).
Con sentenza del 29 novembre 1994, il cui testo fu depositato in cancelleria il 24 dicembre 1994, la corte d’assise di &&. condannò il ricorrente e la sig.ra &&… all’ergastolo. La Corte dichiarò la decadenza della potestà genitoriale del primo ricorrente sulla figlia &&&.
Il ricorrente presentò appello dinanzi alla corte d’assise d’appello di &&&, contestando, tra l’altro, il rifiuto di convocare il sig. &&.. in qualità di testimone a discarico e la mancanza di indagini su fatti e circostanze favorevoli alla difesa.
Con sentenza del 27 novembre 1995, il cui testo fu depositato in cancelleria il 6 dicembre 1995, la corte d’assise d’appello di &&.. confermò la sentenza di primo grado.
Il ricorrente ricorse in cassazione impugnando, tra l’altro, il rifiuto di convocare il sig. &&&. in qualità di testimone a discarico.
Con sentenza del 18 aprile 1996, il cui testo fu depositato in cancelleria il 9 maggio 1996, la Corte di cassazione, ritenendo che la corte d’assise d’appello avesse motivato in modo logico e corretto ogni punto controverso, respinse il ricorso del ricorrente.
Il 30 luglio 1999, il ricorrente presentò una richiesta di revisione dinanzi alla corte d’appello di &&.
Con sentenza del 19 febbraio 2001, depositata in cancelleria il 1° marzo 2001, la corte d’appello di &&&.. considerò fondata la richiesta di revisione e giudicò di nuovo la causa. Alla fine del processo, la corte d’appello assolse il ricorrente e revocò la decadenza dalla potestà genitoriale del primo ricorrente.
In data imprecisata, furono presentati ricorsi in cassazione contro la sentenza del 19 febbraio 2001 da parte della Procura di &&&. e delle parti civili.
Il 26 settembre 2001, la Corte di cassazione, a sezioni unite, respinse i ricorsi, confermando la sentenza della corte d’appello.
Nel frattempo, il 28 ottobre 1996, il primo ricorrente si era rivolto alla Commissione europea dei Diritti dell’Uomo.
Il primo ricorrente denunciava la violazione dell’articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione riguardanti l’ingiustizia del procedimento penale avviato nei suoi confronti e più in particolare il rifiuto delle autorità giudiziarie italiane di convocare il sig. &&… in qualità di testimone a discarico.
In seguito all’entrata in vigore del Protocollo n° 11 il 1° novembre 1998, e in conformità all’articolo 5 § 2 di quest’ultimo, il procedimento fu trasmesso alla Corte.
Il 6 luglio 1999, la Corte dichiarò il ricorso ricevibile. Nella sua sentenza del 27 luglio 2000, la Corte dichiarò che non vi era stata violazione dell’articolo 6 § 1 preso a sé stante o combinato con il comma 3 d) della stesso articolo.
Il 13 dicembre 2000 la causa fu rinviata a giudizio dinanzi alla Grande Camera.
Con sentenza del 24 ottobre 2002, la Grande Camera concluse che la controversia era stata decisa ai sensi dell’articolo 37 § 1 b) della Convenzione, e decise di cancellare il procedimento dal ruolo.
2. I provvedimenti riguardanti la figlia del primo ricorrente
Il 23 settembre 1993, dopo l’arresto del primo ricorrente, il giudice tutelare di &&& nominò lo zio materno in qualità di tutore della bambina e la zia come protutrice, affidando a loro la bambina.
Il 2 aprile 1997, gli altri ricorrenti chiesero al giudice tutelare di poter riprendere i contatti con la bambina e di incontrarla.
Il 29 aprile 1997, il giudice tutelare incontrò il tutore e la protutrice della bambina e ne chiese il parere per verificare se fossero disposti ad agevolare i contatti tra i ricorrenti e la bambina.
Il tutore e la protutrice diedero parere negativo, sostenendo che la bambina non conosceva le circostanze della morte della madre e che i ricorrenti, poiché avevano sempre proclamato l’innocenza del padre e il suo essere vittima di un errore giudiziario, potevano influenzare negativamente la piccola.
Il 20 maggio 1997, il giudice incontrò i ricorrenti e comunicò loro il parere negativo dato dal tutore e dalla protutrice. Il giudice non ordinò però alcuna perizia relativamente allo stato psicologico della bambina.
Con provvedimento del 2 marzo 1998, il giudice vietò ogni contatto tra i ricorrenti e la bambina, sostenendo che ogni ripresa dei rapporti tra la piccola e i ricorrenti sarebbe stato dannoso ai fini di un sano ed equilibrato sviluppo della bambina in quanto i ricorrenti avrebbero potuto influenzarla relativamente a suo padre e alle circostanze della morte della madre. Inoltre, poiché la bambina era stata cresciuta dalla zia e dallo zio dall’età di due anni, il giudice ritenne che godeva da loro di una situazione serena.
Dopo essere stato assolto, il primo ricorrente chiese al giudice tutelare di togliere la bambina dall’affidamento visto che, in seguito alla sentenza della corte d’appello di &&&.., era stato reintegrato nei suoi diritti relativi alla potestà genitoriale.
Il 27 febbraio 2001, la protutrice fu ascoltata dal giudice, che lo informò del fatto che il primo ricorrente aveva concesso delle interviste ad alcuni giornali in cui appariva spesso il nome della bambina. Disse inoltre al giudice che la bambina credeva che sua madre fosse morta in seguito ad un incidente automobilistico, e che suo padre fosse scomparso in seguito a perdita della memoria. Per di più, il tutore e la protutrice chiesero al giudice di essere autorizzati a ricorrere in cassazione contro la sentenza della corte d’appello di &&&. del 19 febbraio 2001 e dissero che sarebbe stato auspicabile aspettare la sentenza della Corte di cassazione prima di prendere una decisione relativamente alla sistemazione della bambina.
Il 5 marzo 2001, il giudice tutelare decise di aspettare il deposito della motivazione della sentenza della corte d’appello di &&&..
La sentenza fu depositata in cancelleria il 1° marzo 2001, e il primo ricorrente la inviò al giudice tutelare.
Il 19 marzo 2001, il giudice tutelare permise al primo ricorrente di ottenere una fotografia della bambina.
Nel novembre 2001, il perito psichiatrico inviato dal giudice depositò una relazione in cui riteneva necessario far credere alla bambina che suo padre era stato detenuto all’estero e che, dopo aver ritrovato la memoria, aveva deciso di riprendere i contatti con lei.
Nel gennaio 2002, il perito informò il giudice che le parti avevano accettato la sua proposta.
Con provvedimento del 18 aprile 2002, il cui testo fu depositato in cancelleria il 22 aprile 2002, il giudice tutelare tolse la bambina dall’affidamento e trasmise la decisione al tribunale per i minori di &&&.. affinché prendesse le necessarie misure ai sensi dell’articolo 333 del codice di procedura civile.
Il 27 maggio 2002, la procura chiese al tribunale per i minori di ……….. (“tribunale per i minori”) di affidare la bambina alla zia materna (la protutrice) e di sospendere la potestà genitoriale del primo ricorrente.
Con provvedimento del 6 giugno 2002, il tribunale per i minori, dopo aver ascoltato il padre e la zia materna della bambina, affidò provvisoriamente la bambina alla zia materna ed ordinò ai servizi sociali di costituire un progetto di riavvicinamento tra la bambina e i ricorrenti, tenendo conto del suo stato psicologico.
Il 17 ottobre 2002, il primo ricorrente depositò un memoriale al tribunale dei bambini, denunciando il fatto che la figlia era stata informata sulla sua detenzione a sua insaputa e chiedendo al tribunale di affidarla ai servizi sociali.
Il 7 gennaio 2003, la psicologa dei servizi sociali redasse un rapporto in cui suggeriva di proseguire gli incontri tra il primo ricorrente e la zia materna, al fine di costruire rapporti basati sulla fiducia reciproca, affinché &&&. ne potesse beneficiare. La psicologa ritenne inoltre necessario che gli incontri fossero preceduti da un lavoro di preparazione della bambina da parte dei servizi sociali già incaricati di seguirla. La psicologa osservò inoltre che non si poteva prevedere la data in cui la bambina sarebbe stata in grado di incontrare il padre, visto il fragilissimo stato psicologico della bambina e il suo rifiuto.
Il 3 giugno 2003, il primo ricorrente e la zia materna firmarono un accordo che prevedeva una mutua collaborazione e incontri mensili in presenza dei servizi sociali, al fine di instaurare un clima di fiducia reciproca.
Il 5 aprile 2004, l’avvocato del primo ricorrente consegnò ad &&…, che stava per recarsi a scuola, un articolo di giornale dove era scritto che sua madre era stata uccisa dall’amante del padre. Dopo tale rivelazione, &&… aveva sostenuto di non voler mai incontrare il padre.
Con provvedimento del 22 maggio 2005, il tribunale per minori affidò &&&. alla zia materna, che aveva il compito di sostenere la bambina dal punto di vista psicologico. Ordinò inoltre al primo ricorrente di rispettare gli interessi della bambina, ed incaricò il comune di ……….. di informare il tribunale sull’evoluzione della situazione. Il tribunale osservò che ………… aveva espresso la volontà di non incontrare il padre e che l’avvocato di quest’ultimo aveva avvicinato la bambina rivelandole l’omicidio della madre ed il coinvolgimento del padre. Tale episodio aveva compromesso il lavoro fatto dai servizi sociali. Inoltre, il tribunale osservò che i rapporti tra il primo ricorrente e la zia materna erano tesi a causa della partecipazione del primo ricorrente a trasmissioni televisive e ad interviste sull’omicidio della moglie. Il tribunale ne dedusse che il primo ricorrente era interessato più a se stesso che non agli interessi di ………… e, visto il ruolo cooperativo della zia e il sostegno che questa le dava con l’aiuto dei servizi sociali, era del parere che ………… dovesse continuare a vivere con lei.
2. Il diritto interno pertinente
L’articolo 333 del codice civile è così formulato:
“Quando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’articolo 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare. Tali provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento.”
MOTIVO DI RICORSO
Appellandosi all’articolo 8 della Convenzione, i ricorrenti denunciano il fatto che lo Stato italiano ha impedito loro e impedisce loro tuttora, dal 1993, di avere dei contatti con la bambina. In particolare, i ricorrenti denunciano il fatto che, malgrado nel 2001 il primo ricorrente sia stato prosciolto, essi non abbiano ancora potuto incontrare la bambina e riallacciare i rapporti con lei.
IN DIRITTO
I ricorrenti denunciano il fatto che lo Stato italiano impedisce loro dal 1993 di avere dei contatti con la bambina, e si appellano all’articolo 8 della Convenzione che è così formulato:
“1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. “
2. Non può aversi interferenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto a meno che questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri.”
1. Il secondo, terzo, quarto e quinto ricorrente
1. La tesi delle parti
1. Il Governo
Il Governo sostiene che il ricorso, per quel che riguarda questi quattro ricorrenti, è irricevibile per tre motivi.
Anzitutto sostiene che i ricorrenti non hanno mai avuto con ………… dei rapporti che si possano definire di “vita familiare” ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. In particolare, il Governo ricorda che ………… aveva due anni al momento dell’omicidio della madre e che all’epoca gli incontri con la famiglia paterna furono interrotti. Per il Governo, tali circostanze deporrebbero a favore dell’inesistenza di una “vita familiare”.
In secondo luogo, il Governo sostiene che il ricorso è tardivo in quanto la decisione interna definitiva è la decisione del giudice tutelare del 2 marzo 1998, mentre il ricorso è stato presentato nel 2002.
Infine, il Governo sostiene che il ricorso debba essere respinto per mancato esaurimento delle vie di ricorso interno, in quanto i ricorrenti non hanno presentato reclamo avverso il provvedimento del giudice tutelare del 2 marzo 1998 ai sensi dell’articolo 739 del codice di procedura civile.
2. I ricorrenti
I ricorrenti contestano le eccezioni sollevate dal Governo.
Anzitutto, sostengono che il ricorso non è tardivo in quanto la decisione del giudice tutelare del 2 marzo 1998 non è diventata definitiva, in mancanza di notifica ai sensi dell’articolo 739 del codice di procedura civile.
Quanto all’applicazione dell’articolo 8 della Convenzione, i ricorrenti sostengono che la nonna deceduta di ………… debba essere considerata come ricorrente, ed osservano poi che i legami tra essi ed ………… sono stati interrotti in seguito all’arresto del primo ricorrente. Secondo i ricorrenti, l’esistenza di una vita familiare non coincide con la convivenza degli interessati, ma piuttosto con dei rapporti familiari che lo Stato ha negato ai ricorrenti in seguito all’arresto del primo ricorrente.
2. Valutazione della Corte
La Corte ritiene inutile pronunciarsi sulle eccezioni del mancato esaurimento e del mancato rispetto del termine di sei mesi. Infatti, anche ammettendo che le vie di ricorso interno siano state esaurite e che il ricorso non sia tardivo, la Corte ritiene che l’articolo 8 non sia applicabile alla fattispecie.
La Corte ricorda anzitutto di aver riconosciuto che il concetto di vita familiare “include almeno i rapporti tra parenti stretti, che possono avervi un ruolo considerevole”, per esempio tra nonni e nipoti (Marckx c. Belgio, sentenza del 13 giugno 1974, serie A n° 31, § 45, e Bronda c. Italia, n° 22430/93, sentenza del 9 giugno 1998, Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1998-IV, § 51). Inoltre, nella causa Ticli e Mancuso c. Italia (n° 38301/97 del 23 marzo 1999), relativa ai rapporti tra un minore e i nonni e la zia paterna, la Corte ha dichiarato che “per un genitore e il figlio, stare insieme costituisce un elemento fondamentale della vita familiare (&). La Corte ritiene che debba essere la stessa cosa quando si tratta di rapporti tra un bambino e membri della famiglia paterna”. La Corte ricorda infine che, in un procedimento relativo al rifiuto al ricorrente di poter avere dei contatti con il nipote quando quest’ultimo era sistemato in una famiglia affidataria, la Commissione ha affrontato il problema di sapere se i rapporti tra zio e nipote potessero essere inclusi nel concetto di vita familiare ai sensi dell’articolo 8 (Boyle c. Regno Unito, n° 16580/90, rapporto della Commissione del 9 febbraio 1993). La Commissione ha anzitutto sottolineato che la convivenza non è una conditio sine qua non del mantenimento dei vincoli familiari e, considerando i frequenti contatti tra il ricorrente e suo nipote nonché il fatto che il bambino aveva passato molti fine settimana dallo zio, ha concluso che il legame sostanziale esistente tra i due rientrava nel campo d’applicazione del concetto di “vita familiare”.
Nella fattispecie, la Corte osserva che i ricorrenti hanno avuto contatti con la bambina fino all’età di due anni e che in seguito alla morte della madre di ………… ed all’arresto del primo ricorrente, tali rapporti sono stati interrotti. Nel 1997 (quattro anni dopo l’arresto del primo ricorrente), gli altri ricorrenti avevano espresso, dinanzi al giudice tutelare, il loro desiderio di riallacciare dei contatti con la bambina. Con provvedimento del 2 marzo 1998, il giudice tutelare negò la possibilità di ogni contatto tra i ricorrenti e la bambina ritenendo che ogni ripresa dei rapporti sarebbe stata dannosa per uno sviluppo sano ed equilibrato di ………… In particolare, il giudice sottolineò che i ricorrenti potevano influenzare quest’ultima relativamente al padre e alle circostanze del decesso della madre.
Da allora, i ricorrenti non hanno avuto alcun contatto con la bambina. Viste le circostanze, la Corte ritiene che il legame dei ricorrenti con la bambina costituisce una base insufficiente in diritto e in fatto perché il rapporto addotto possa rientrare nel concetto di “vita familiare” ai sensi dell’articolo 8 § 1. Ne deriva che il ricorso è incompatibile ratione materiae con le norme della Convenzione ai sensi dell’articolo 35 § 3 e deve essere respinto in applicazione dell’articolo 35 § 4 per quanto riguarda il secondo, la terza, il quarto e il quinto dei ricorrenti.
2. Il primo ricorrente e la figlia
1. La tesi delle parti
1. Il Governo
Il Governo sostiene anzitutto che il ricorso deve essere respinto per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in quanto il procedimento è pendente dinanzi al tribunale dei minori.
In secondo luogo, ritiene che l’articolo 8 della Convenzione non si applichi alla situazione dei ricorrenti, che non possono avvalersi dell’esistenza di una “vita familiare” che possa essere tutelata dall’articolo 8.
Inoltre, il Governo solleva l’eccezione di irricevibilità del ricorso nella misura in cui il primo ricorrente sostiene di agire anche per conto della bambina. In proposito, il Governo sostiene, tra l’altro, che se si parte dall’idea che in alcune situazioni l’interesse del genitore e quello del bambino relativamente all’articolo 8 possano non coincidere, sarebbe contraddittorio riconoscere che il genitore possa far valere contemporaneamente il proprio interesse e quello di suo figlio il quale, almeno in teoria, gli è contrapposto. In effetti i bambini dovrebbero avere la possibilità di far valere il proprio interesse dinanzi alla Corte.
Relativamente alla fondatezza del motivo di ricorso, il Governo sostiene che nel caso in cui la Corte affermasse che i semplici legami di sangue tra il primo ricorrente e la figlia costituiscono una vita familiare ai sensi dell’articolo 8, l’intervento delle autorità nella fattispecie non costituisce un’ingerenza.
Il Governo osserva che, in un primo tempo, il giudice tutelare ha deciso, insieme al primo ricorrente ed all’aiuto di uno specialista, di preparare un programma di graduale riavvicinamento tra il padre e la bambina, e che successivamente il tribunale dei minori ha fatto le pratiche necessarie per permettere al primo ricorrente e ad ………… di stare insieme.
Il Governo afferma inoltre che non vi è stata alcuna ingerenza delle autorità nella vita familiare dei ricorrenti e che l’interruzione dei rapporti tra i ricorrenti era dovuta alla condanna del primo ricorrente per l’omicidio della moglie.
Nell’ipotesi in cui la Corte ritenesse che vi sia stata ingerenza nel diritto dei ricorrenti, il Governo sostiene che tale ingerenza sarebbe giustificata ai sensi del comma 2 dell’articolo 8, e in particolare fa osservare che il comportamento delle autorità è stato conforme alla legge. In primo luogo, il ricorrente ha dato il suo consenso per un riavvicinamento graduale con …………, che è stato effettuato con il totale consenso della zia materna e di uno psicologo che aveva stabilito un programma dettagliato per permettere al ricorrente di partecipare nuovamente alla vita della figlia. In secondo luogo, il ricorrente ha insistito inopinatamente sul fatto di togliere immediatamente la bambina dall’affido rinunciando alla possibilità offertagli di riprendere i contatti con …………, e ha avviato il procedimento dinanzi al tribunale dei minori.
Quanto allo scopo legittimo, il Governo afferma che tutte le misure prese dal giudice tutelare e dal tribunale dei minori hanno avuto lo scopo di proteggere l’interesse della bambina.
Infine, relativamente alla proporzionalità delle misure adottate, il Governo ricorda che nessun tribunale ha vietato i contatti tra il ricorrente ed ………… Inoltre, il tribunale ha rifiutato di sospendere la potestà genitoriale del ricorrente. Il Governo fa del resto osservare che le misure adottate fino ad oggi hanno avuto come finalità il riavvicinamento del padre e della figlia secondo un programma di ricongiungimento rispettoso delle esigenze dello sviluppo della minore. Nonostante ciò, il Governo sostiene che il programma sarà lungo tenuto conto del blocco psicologico di …………, e soprattutto tenuto conto del fatto che l’avvocato del primo ricorrente ha deciso secondo “un’iniziativa molto personale” di rivelare ad ………… che il padre tradiva la madre e che la relazione amorosa che aveva era stata la causa dell’omicidio.
Il Governo sottolinea che l’intervento delle autorità, che hanno costantemente coinvolto il ricorrente nei loro provvedimenti ottenendone spesso il suo consenso e che si sono prefisse lo scopo di costruire nel miglior modo possibile il rapporto genitoriale, non può essere considerato eccessivo rispetto alla legittima finalità di riavvicinare il padre e la figlia senza danneggiare l’equilibrio di quest’ultima.
2. Il ricorrente
Il ricorrente contesta la tesi del Governo.
Anzitutto, sostiene che le autorità nazionali non hanno adottato le adeguate misure per garantire la rapida esecuzione della sentenza della Corte di cassazione che revocava la sua decadenza dalla potestà genitoriale, e che nella fattispecie non hanno favorito il ritorno di ………… presso di lui. Secondo il ricorrente, lo Stato ha omesso di eseguire tale sentenza e gli ha negato il diritto ad una vita familiare.
Il ricorrente sostiene inoltre che il giudice tutelare ha “boicottato” il progetto di riavvicinamento con la figlia e che il tribunale dei minori ha affidato ………… alle cure anonime dei servizi sociali che non erano in grado di elaborare un progetto di riavvicinamento visto che hanno delegato alla zia di ………… il compito di rivelarle che suo padre era ancora vivo. Secondo il ricorrente, la zia avrebbe avuto tutto l’interesse a far credere ad ………… che il padre era responsabile della morte della madre. Il ricorrente chiede alla Corte di tenere in considerazione la durata della lunga separazione da ………… e di dichiarare il ricorso ricevibile.
2. Valutazione della Corte
Relativamente all’applicabilità dell’articolo 8 alla fattispecie, La Corte ricorda che il concetto di famiglia su cui si basa l’articolo 8 della Convenzione comprende, anche in mancanza di convivenza, il legame tra un individuo e suo figlio, legittimo (vedi, mutatis mutandis, Berrehab c. Paesi Bassi del 21 giugno 1988, serie A n° 138, p. 14, § 21, e Gül c. Svizzera del 19 febbraio 1996, Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1996-I, pp. 173-174, § 32) o naturale che sia. Certo, il ricorrente è stato incarcerato quando sua figlia aveva due anni e il legame familiare – che esiste di per definizione tra il ricorrente e la figlia – è stato quindi interrotto molto presto, al punto che il rapporto padre-figlia è stato solo abbozzato. In tale contesto, sembra legittimo che il padre, in seguito alla sua assoluzione, abbia chiesto all’autorità giudiziaria di essere reintegrato nei suoi diritti relativi alla potestà genitoriale e di poter riprendere i contatti con la figlia. Non si può perciò sostenere che il legame familiare tra loro si sia definitivamente rotto. L’eccezione deve perciò essere respinta.
Sull’eccezione di mancato esaurimento, la Corte ricorda che l’obbligo di esaurire le vie di ricorso interne si limita a quello di fare un uso normale dei ricorsi verosimilmente efficaci, sufficienti ed accessibili e non richiede l’esercizio di un ricorso palesemente privo di ogni possibilità di successo. Inoltre, l’articolo 35 della Convenzione deve essere applicato con una certa flessibilità e senza un eccessivo formalismo, tenendo conto del contesto. Infine, una parte ricorrente è esentata dall’obbligo di esercitare un ricorso di carattere ripetitivo (vedi Scozzari e Giunta c. Italia (dec.), n° 39221/98 e n° 41963/98, 15 settembre 1998).
La Corte ricorda che in materia di “volontaria giurisdizione” le decisioni dei tribunali dei minori possono essere revocate o modificate in ogni momento e possono perciò essere oggetto di un numero indefinito di ricorsi. Nella fattispecie, il primo ricorrente, dopo essere stato assolto e reintegrato nei suoi diritti relativi alla potestà genitoriale, ha chiesto al giudice tutelare di poter incontrare ………… Con provvedimento del 22 aprile 2002, il giudice tutelare ha tolto la bambina dall’affidamento e ha trasmesso il provvedimento al tribunale dei minori di ……….. affinché questo prendesse le necessarie misure ai sensi dell’articolo 333 del codice di procedura civile. Con un primo provvedimento del 6 giugno 2002, il tribunale dei minori ha affidato provvisoriamente ………… alla zia materna ed ha ordinato ai servizi sociali di istituire un progetto di riavvicinamento tra la bambina e i ricorrenti, in considerazione del suo stato psicologico. Il vero e proprio mezzo di ricorso a disposizione del ricorrente era una richiesta, rivolta allo stesso tribunale, di riesaminare la situazione ai fini di un’eventuale sospensione, modifica o revoca di tale ordinanza.
Di conseguenza, nelle circostanze proprie a tale causa, una richiesta di riesaminare la situazione rivolta allo stesso tribunale dei minori di ……….. sembrava destinata al fallimento in quanto la bambina aveva sempre vissuto con la zia. In proposito, la Corte fa osservare che con decisione del 22 maggio 2005, il tribunale dei minori ha affidato ………… alla zia materna. Del resto, un ricorso inviato alla stessa autorità che ha preso il provvedimento controverso non può essere considerato un ricorso efficace che soddisfa i criteri dell’articolo 35 della Convenzione.
Di conseguenza, l’eccezione di mancato esaurimento non può essere accolta.
Per quanto riguarda l’eccezione relativa al titolo del primo ricorrente di poter agire altresì in nome della bambina, la Corte ricorda che ha già avuto occasione di affermare che una persona ” che non ha, nel diritto interno, il diritto di rappresentare un’altra persona, può comunque, in alcune circostanze, agire dinanzi alla Corte in nome di quest’altra persona (&) In caso di conflitto, a proposito degli interessi di un minore, tra il genitore biologico e la persona investita dalle autorità della tutela dei bambini, vi è il rischio che alcuni interessi del minore non siano mai portati all’attenzione della Corte e che il minore sia privato di una protezione effettiva dei diritti che gli derivano dalla Convenzione” (Covezzi e Morselli c. Italia, n° 52763/99, § 103; Scozzari e Giunta c. Italia [GC], n° 39221/98 e 41963/98, § 138). Inoltre, la Corte osserva che nel presente procedimento la potestà genitoriale del primo ricorrente non è stata sospesa, e di conseguenza, l’eccezione deve essere respinta. Il primo ricorrente può perciò pretendere a giusto titolo di agire anche per conto della figlia.
Sulla fondatezza del motivo di ricorso, la Corte osserva che, nella fattispecie, si tratta di decidere se vi è stato non rispetto della vita familiare del primo ricorrente e della figlia, e ricorda che, se l’articolo 8 della Convenzione tende essenzialmente a difendere l’individuo contro arbitrarie ingerenze dei pubblici poteri, crea in aggiunta obblighi positivi relativi a un “rispetto” effettivo della vita familiare. In un caso come nell’altro, occorre considerare il giusto equilibrio da gestire tra gli interessi concorrenti dell’individuo e quelli della società nel suo insieme; allo stesso modo, nelle due ipotesi, lo Stato gode di una certa discrezionalità (Keegan c. Irlanda, sentenza del 26 maggio 1994, serie A n° 290, p. 19, § 49, e soprattutto Iglesias Gil e A.U.I., sentenza del 29 aprile 2003, §§ 47 e seguenti).
Per quanto riguarda l’obbligo per lo Stato di prendere misure positive, la Corte ha dichiarato più volte che l’articolo 8 implica il diritto di un genitore a misure atte a ricongiungerlo a suo figlio e l’obbligo di prenderle per le autorità nazionali (vedi, per esempio, Ignaccolo-Zenide c. Romania, n° 31679/96, § 94, CEDH 2000-I, e Nuutinen c. Finlandia, n° 32842/96, § 127, CEDH 2000-VIII).
Tuttavia, l’obbligo di prendere delle misure a tale scopo non è assoluto per le autorità nazionali. La natura e l’ampiezza di queste misure dipendono dalle circostanze di ogni fattispecie, ma la comprensione e la cooperazione dell’insieme delle persone interessate ne rappresentano sempre un importante fattore. Se le autorità nazionali devono far di tutto per facilitare tale collaborazione, l’obbligo per esse di ricorrere alla coercizione in questo campo non può che essere limitato: esse devono tener conto degli interessi e dei diritti e delle libertà di queste stesse persone, e soprattutto degli interessi superiori del bambino e dei diritti riconosciutigli dall’articolo 8 della Convenzione. Nell’ipotesi in cui dei contatti con i parenti rischiano di minacciare tali interessi o violare tali diritti, spetta alle autorità nazionali far sì che vi sia un giusto equilibrio tra di loro (Ignaccolo-Zenide, succitato, § 94).
La frontiera tra obblighi positivi e negativi dello Stato ai sensi dell’articolo 8 non si presta a una precisa definizione; i principi applicabili sono tuttavia paragonabili. In particolare, nei due casi, occorre considerare il giusto equilibrio da gestire tra gli interessi concorrenti; allo stesso modo, nelle due ipotesi, lo Stato gode di una certa discrezionalità (vedi, per esempio, le sentenze W., B. e R. c. Regno Unito succitate, rispettivamente, p. 27, § 60, p. 72, § 61, e p. 117, § 65, e Gnahoré c. Francia n° 40031/98, § 52 ECHR 2000-IX).
La Corte osserva che il punto decisivo nella fattispecie consiste nel sapere se le autorità nazionali hanno preso tutte le misure che ci si poteva ragionevolmente aspettare da loro per permettere al ricorrente di riallacciare normali legami familiari con la figlia.
La Corte osserva che all’inizio il rapporto padre-figlia è stato interrotto a causa dell’arresto e della condanna del primo. La bambina è stata affidata alla zia materna. Dal momento della sua scarcerazione e dopo aver riavuto la potestà genitoriale sulla bambina, il ricorrente ha più volte chiesto alle autorità interne di poter ricostruire la sua famiglia. Con un primo provvedimento del 6 giugno 2002, il tribunale dei minori ha affidato provvisoriamente la bambina alla zia materna ed ha ordinato ai servizi sociali di istituire un progetto di riavvicinamento tra la bambina e il ricorrente, tenendo conto dello stato psicologico di …………
In seguito a tale provvedimento, il primo ricorrente ha incontrato la zia materna della bambina e gli psicologi del comune per costruire con loro un rapporto equilibrato che non fosse destabilizzante per la bambina e per preparare meglio quest’ultima a un incontro con il padre. La Corte fa osservare in proposito che le autorità nazionali hanno costantemente fatto sì affinché venissero effettuate delle perizie e delle osservazioni educative, in modo che gli elementi più recenti potessero spiegare i loro provvedimenti, in considerazione del carattere evolutivo della situazione. Le autorità si sono sempre poste in una prospettiva dinamica, volta al futuro.
La Corte ricorda che le autorità nazionali non hanno mai impedito un riavvicinamento tra ………… e il primo ricorrente, ed osserva altresì che il comportamento dell’avvocato, che ha rivelato alla bambina che sua madre era stata uccisa dall’amante del padre, non ha facilitato il compito alle autorità nei loro sforzi per facilitare il ricongiungimento familiare.
In seguito alla rivelazione fatta dall’avvocato, la bambina si è opposta nettamente ad un incontro con il padre ed il tribunale dei minori ha deciso allora di affidare la bambina alla zia ed ha ordinato che ………… fosse seguita dai servizi sociali.
La Corte ritiene che i motivi avanzati dalle giurisdizioni interne per giustificare tale provvedimento erano sufficienti relativamente all’interesse della bambina, e che in cause di questo tipo gli interessi dei figli devono passare prima di ogni altra considerazione.
La Corte tuttavia precisa che, ben compreso, tale interesse presenta una doppia faccia. Da una parte, è certo che garantire al bambino uno sviluppo in un ambiente sano fa parte di tale interesse e che l’articolo 8 non può assolutamente lasciare che un genitore veda prendere delle misure che possano danneggiare la salute e lo sviluppo del figlio (Johansen c. Norvegia, sentenza del 7 agosto 1996, Recueil 1996-III, p. 1008, § 78, e E.P. c. Italia, n° 31127/96, § 62, 16 novembre 1999). D’altra parte, è chiaro che è anche nell’interesse dal bambino che siano mantenuti i legami tra lui e la famiglia, a meno che quest’ultima non si sia dimostrata veramente indegna: rompere tale legame significa tagliare il bambino dalle sue radici. Ne risulta che l’interesse del bambino impone che soltanto circostanze veramente eccezionali possano portare a una rottura del legame familiare, e che tutto sia messo in atto per mantenere i rapporti personali e, se necessario, al momento opportuno, “ricostruire” la famiglia.
La Corte fa osservare che non risulta dagli atti procedurali che i provvedimenti presi dalle autorità nazionali abbiano direttamente leso i rapporti tra il ricorrente e la figlia. Non si può nemmeno rimproverare alla zia materna a cui ………… è stata affidata di aver voluto impedire ogni ripresa dei rapporti con il ricorrente. Inoltre, il tribunale dei minori ha istituito un programma di riavvicinamento tra ………… e il padre, con il sostegno dei servizi sociali.
Tenuto conto di quanto precede e in considerazione del contesto della causa, la Corte ritiene che i provvedimenti presi dalle autorità nazionali siano conformi sia agli interessi del ricorrente che a quelli della bambina e che, tutt’altro che inattive, le giurisdizioni investite del procedimento hanno preso, in considerazione del diritto interno, i provvedimenti che ci si poteva ragionevolmente aspettare prendessero.
Ne segue che tale motivo di ricorso è palesemente infondato e deve essere respinto, ai sensi dell’articolo 35 §§ 3 e 4 della Convenzione.
Per questi motivi, la Corte, all’unanimità,
Dichiara il ricorso irricevibile.
Vincent Berger
Cancelliere
Boatjan M. Zupan?i?
Presidente