PROGETTO INNOCENTI
UNA CONFISCA ILLEGITTIMA
ASSOLTO DALL’ACCUSA DI ASSOCIAZIONE MAFIOSA E CONDANNATO A PERDERE IL SUO PATRIMONIO
LABITA BENEDETTO, nato ad Alcamo il 10.09.1955, venne arrestato il 21.04.1992 perché accusato di far parte di una associazione mafiosa in base alle accuse di un collaboratore di giustizia ( FILIPPI BENEDETTO ), che ne aveva avuto notizia da una persona deceduta che a sua volta ne aveva avuto notizia da persona anch’essa deceduta.
In sostanza il LABITA veniva accusato di gestire una società finanziaria per conto del presunto capo di cosa nostra MILAZZO VINCENZO ( nel frattempo deceduto ) della più potente cosca mafiosa di Alcamo.
Tutti i ricorsi sul mantenimento dello stato detentivo vennero respinti.
Dopo 2 anni e sette mesi di carcerazione preventiva il LABITA venne assolto con sentenza del Tribunale di Trapani del 12.11.94, sentenza poi confermata in appello in data 14.12.1995.
Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, secondo quelle sentenze, non trovarono alcun riscontro; anzi nel processo emerse che in realtà lo stesso LABITA era un semplice dipendente di una finanziaria, della quale non venne accertato alcun collegamento con la criminalità organizzata.
Nelle more del processo di primo grado, il Tribunale di Trapani sottopose il LABITA alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale e nel 1994 lo stesso Tribunale emise decreto di confisca dei beni di pertinenza del LABITA medesimo.
Fra i beni confiscati vi era anche l’immobile che ancora oggi il LABITA abita con la sua famiglia.
Ora, dopo l’assoluzione dall’accusa di associazione mafiosa, il LABITA ricorse alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per una seria di violazione ai diritti umani tutelati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nonché per i maltrattamenti subiti nel carcere di Pianosa.
E così, con sentenza del 6.4.200 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannò lo Stato Italiano per le violazioni denunciate dal LABITA.
Nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo si legge testualmente che… la CORTE non riesce a comprendere come mai il fatto di essere cognato di un boss mafioso abbia potuto indurre l’Autorità Giudiziaria Italiana a ritenere che il LABITA fosse anch’egli mafioso.
Fra l’atro, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella sua sentenza, ha ritenuto impropria l’applicazione della misura di prevenzione personale il LABITA per mancanza di alcun elemento indiziario serio.
Nonostante la condanna dello Stato Italiano, l’ A.G. ha sempre respinto le domande del LABITA di restituzione dei beni confiscati allo stesso.
La vicenda appare paradossale se si pensa che lo Stato Italiano ha riconosciuto l’errore giudiziario per il quale è stato pure condannato e al contempo ha ritenuto legittima la confisca che ha colpito il patrimonio del LABITA.
Recentemente con la novella legislativa del 2006 che impegna lo Stato Italiano a dare esecuzione alle sentenze della C.E.D.U., e al riconoscimento giurisprudenziale del detto diritto ( DORIGO ), il LABITA ha avanzato istanza al Tribunale di Trapani per la disapplicazione del giudicato e per la restituzione dei beni confiscati.
Il relativo processo è in corso.
ALLEGATO 1. RICORSO ALLA CORTE DI APPELLO DI PALERMO PER LA DISAPPLICAZIONE DEL GIUDICATO ITALIANO
CORTE DI APPELLO DI PALERMO
SEZIONE PER LE MISURE DI PREVENZIONE
RICHIESTA DI REVOCA EX ART. 7 COMMA 2 L. 1423/56.
Il sottoscritto difensore e procuratore speciale, come da nomina allegata al presente atto, di
LABITA BENEDETTO
nato ad Alcamo il 10.09.1955 ed ivi residente, giusta procura speciale allegata alla presente, fa richiesta perché Questa Corte Voglia revocare il decreto emesso in data 16.10.1995 con il quale in parziale riforma del decreto del Tribunale di Trapani, sezione misure di prevenzione, è stata disposta la confisca dei cespiti patrimoniali di pertinenza del LABITA ai sensi della Legge 575/65 e succ.. modifiche.
FATTO
Il Tribunale di Trapani, sezione misure di prevenzione, con decreto del 10 maggio 1993 sottoponeva il predetto LABITA a misura di prevenzione ai sensi della L. 575/65 in quanto additava lo stesso come soggetto stabilmente inserito nell’organizzazione mafiosa operante nel territorio di Alcamo e capeggiata dal tristemente noto Milazzo Vincenzo.
Con decreto del 26 marzo 1994 il medesimo Tribunale, decidendo sulla proposta formulata dal competente Questore, ordinava la confisca dei seguenti compendi patrimoniali:
quota di partecipazione nella s.r.l. ALTUR pari al 25% del capitale;
fabbricato su tre piano oltre al terreno sito in Alcamo c.da S. Anna, catastato al foglio 53, partt 1507 sub 2, 1507 sub.3, 1507 sub. 4 e 1507 sub.5 acquistato dal predetto LABITA in regime di comunione legale con la di lui moglie Milazzo Maria;
n. 3 unità immobiliari site in Alcamo corso VI aprile n. 325, 354 e 356 catastato al foglio 124, partt. 1393 sub.1, 1393 sub. 2, e 1392 sub. 2, pervenute al proposto per atto di compravendita rogato notaio Incardona il 4.12.1990;
La Corte di Appello di Palermo, sezione misure di prevenzione, in data 16.10.1995 in parziale riforma del decreto del Tribunale di Trapani revocava il sequestro la confisca limitatamente alle quote sociali possedute dal LABITA nella società ALTUR, e confermava nel resto l’impugnato decreto..
Invero, il procedimento di prevenzione, personale e patrimoniale, a carico del LABITA trovava la sua genesi nell’ ordinanza di custodia cautelare per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., che colpiva il prevenuto.
Ed infatti, il LABITA veniva ritenuto frequentatore, secondo la segnalazione del Questore di Trapani, di soggetti affiliati alla medesima consorteria mafiosa essendo socio di Spica Antonino, Pipitone Antonino e Benenati Simone, della società ALTUR s.rl. che gestiva una discoteca in Alcamo Marina, asseritamente canale di riciclaggio di illeciti proventi della consorteria mafiosa nel quale sarebbe stato interessato il Milazzo Vincenzo, elemento questo desunto dal fatto che il LABITA era cognato del predetto Milazzo.
Gli indizi di colpevolezza ritenuti nell’ordinanza di custodia cautelare, cui ha fatto riferimento il decreto del Tribunale trapanese, erano costituiti dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia FILIPPI BENEDETTO, che lo indicava come uomo d’onore incaricato dall’organizzazione mafiosa come il cassiere della mafia attraverso la Finanziaria Commerciale di Alcamo presso cui il LABITA lavorava.
Cosicchè, il quadro indiziario tratto dalla citata ordinanza di custodia cautelare, cui il LABITA e gli altri soci della discoteca vennero sottoposti, nonché i rapporti di affari fra gli stessi hanno costituito, secondo il decreto del Tribunale della prevenzione, valido supporto per ritenere l’esistenza dell’appartenenza all’associazione di tipo mafioso.
Purtuttavia, con sentenza del 12.11.1994 il Tribunale di Trapani assolveva il LABITA dal reato di associazione mafiosa ascrittogli e ne disponeva la scarcerazione.
La sentenza assolutoria di cui sopra veniva confermata dalla Corte di Appello di Palermo in data 13.12.1995 cui ricorreva il P.M. appellante.
SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO DI CONDANNA DELLO STATO ITALIANO
Con ricorso n. 26772/95 il LABITA àdiva la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo su una serie di violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo a danno del ricorrente medesimo, fra le quali appunto l’essere stato sottoposto il LABITA indebitamente alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale ai sensi della L. 575/1965..
Con sentenza del 6 aprile 2000 la Corte Europea condannava lo STATO ITALIANO per il mancato accertamento sui maltrattamenti umani denunciati dal ricorrente allorchè lo stesso era detenuto nel carcere di Pianosa, nonchè, per quello che ci interessa nel presente procedimento, anche per la misura di prevenzione personale applicata dalla A.G. Italiana al Labita.
Il ricorrente, invero, sul punto aveva lamentava la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4 ai sensi del quale:
1.Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha diritto di circolarvi liberamente e di scegliere la sua residenza.
2.Ognuno è libero di lasciare qualsiasi Paese compreso il suo.
- L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e costituiscono in una società democratica misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico ala prevenzione degli illeciti penale, alla protezione della salute o della morale pubblica.
- I diritti riconosciuti al paragrafo 1 possono, anche in determinate zone, essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica.
Nel ricorso del LABITA alla Corte europea dei diritti dell’uomo si faceva presente l’illegittimità della misura di prevenzione anche avuto riguardo alla insufficienza degli indizi tenuto conto della sentenza di assoluzione nel processo penale che lo aveva visto imputato di associazione mafiosa ed altro.
Il Governo Italiano regolarmente costituitosi, sottolineava invece l’importanza della prevenzione penale relativamente alle persone sospettate di appartenere alle associazioni mafiose, e precisava che, nel caso di specie, l’ asserita circostanza che il ricorrente fosse stato assolto nel processo che lo vedeva imputato per associazione mafiosa, e dal quale aveva preso spunto la misura di prevenzione, non inficiava assolutamente la legittimità della misura di prevenzione che gli era stata applicata.
Infatti, come è noto nell’ordinamento italiano la sanzione penale e la misura di prevenzione sono sostanzialmente differenti: la prima costituisce una reazione contro un’ azione che ha volto il diritto e ha provocato talune conseguenze, la seconda è uno strumento volto a prevenire che simili azioni si verifichino.
Nella fattispecie, il governo italiano, ribadiva che, nonostante il LABITA fosse stato assolto sussistevano a suo carico seri indizi di colpevolezza che avevano giustificato il suo rinvio a giudizio e che non sono stati smentiti nel corso del processo.
Orbene, in sede di decisione la C.E.D.U., se da un lato, riteneva in astratto la compatibilità dell’istituto preventivo con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dall’altro, rilevava come le argomentazioni poste a fondamento del decreto di applicazione della misura di prevenzione personale, e segnatamente l’esistenza di legami familiari con la mafia, fossero del tutto insufficienti.
In particolare, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha esaminato le motivazioni addotte dai tribunali competenti per rifiutare la revoca di tale misura nonostante l’assoluzione , vale a dire la circostanza che, a dire del collaboratore di giustizia Benedetto Filippi, il ricorrente era collegato al clan mafioso di Alcamo, come prova il fatto che suo cognato, deceduto, era stato il capo del detto clan ( sentenza Tribunale Trapani del 11.6.1996 ) e che il ricorrente non aveva dimostrato di avere realmente mutato il suo stile di vita né di essersi effettivamente pentito, e ha così motivato sulla domanda del LABITA.
……….Ora, la Corte non riesce a comprendere come la semplice circostanza che la moglie del ricorrente sia la sorella di un capo mafia, nel frattempo deceduto, possa giustificare misure così pesanti a carico del ricorrente in assenza di ogni elemento concreto che attesti il rischio reale di potenziale commissione di reati.
Quanto al cambiamento dello stile di vita e al pentimento, la Corte non può non ricordare che il ricorrente, che non ha precedenti penali è stato prosciolto dall’accusa di appartenere alla mafia perché non si è potuto rinvenire nessun elemento concreto sulla sua affiliazione alla mafia né durante le indagini preliminari né nel corso del processo.
La Corte conclude che le limitazioni alla libertà di circolazione del signor LABITA non possono essere considerate “necessaire in una società democratica”.
Vi è stata dunque violazione dell’articolo 2 del protocollo n. 4 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Sulla scorta di tale pronuncia di condanna nei confronti dello Stato Italiano, per la violazione dell’art. 2 del protocollo n. 4 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il LABITA ha chiesto alla Corte di Appello di Palermo la revoca del decreto confisca del suo patrimonio assumendo che la rimozione del presupposto genetico del provvedimento ablatorio, cioè l’essere indiziato di appartenere ad una associazione mafiosa, legittimasse la revoca ex tunc del provvedimento di confisca.
Nel ricorso del ricorrente alla Corte di Appello di Palermo si rappresentava che con la L. 4.8.1955 n. 848 lo Stato Italiano ha ratificato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, impegnandosi così all’art. 46 della detta legge di ratifica a dare esecuzione alle sentenze definitive della Corte Europea.
Come è noto, il presupposto per l’applicazione delle misure di prevenzione personali e patrimoniali è la pericolosità del prevenuto che deve essere connotata dal requisito dell’attualità; la ratio della misura di prevenzione è infatti quella di recidere il legame tra il soggetto pericoloso ed il suo patrimonio
La giurisprudenza degli ultimi anni ha ritenuto che il requisito dell’attualità della pericolosità deve considerarsi necessariamente implicito nella riconosciuta appartenenza del proposto ad una consorteria mafiosa.
Ora, così come affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, è proprio il requisito anzidetto che mancava al momento dell’adozione della misura patrimoniale.
Appariva pertanto, a parere del ricorrente, evidente il contrasto tra le decisioni della A.G. Italiana concernente l’applicazione delle misure di prevenzione, personali e patrimoniale, e al sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che proprio sul punto in questione ha condannato il Governo Italiano a risarcire il LABITA.
E purtuttavia, la Corte di appello palermitana, con decreto del 18.11.2002 ha rigettato il detto ricorso ex art. 7 L. 1423/56, ritenendo che la sentenza della C.E.D.U. di condanna dello Stato Italiano, in ordine all’applicazione della misura di prevenzione a carico del LABITA, non poteva costituire elemento di novità nel significato inteso dalla giurisprudenza di legittimità ai fini della revoca del decreto di confisca.
Avverso tale decreto venne proposto ricorso per Cassazione assumendo l’errata applicazione della L. 575/1965 nella parte in cui non aveva ritenuto correttamente la rimozione del presupposto genetico legittimante la misura patrimoniale, così come riconosciuto dalla sentenza della C.E.D.U. che, come detto, ha condannato l’ ITALIA , anche per l’erronea applicazione delle misure di prevenzione personali su cui la Corte Europea si è espressamente.
Orbene, la Corte di Cassazione, così adita, con sentenza del 22.04.2004 ha respinto il ricorso………………….. assumendo fondamentalmente che la pronuncia della C.E.D.U. si esaurisce nell’affermazione della conseguente responsabilità dello STATO ITALIANO per quel giudicato prevenzione cui è stato sottoposto il LABITA, e non può quindi costituire fatto nuovo che giustifichi di per sé solo la revoca ex tunc delle misure imposte al ricorrente; considerato infine che tale conclusione non è affatto contraddetta dal dovere dello Stato Italiano di dare esecuzione alle decisioni della CEDU, esecuzione che, allo stato dell’attuale normativa, si esaurisce nel corrispondere il dovuto indennizzo.
OBBLIGO DELL’ORDINAMENTO ITALIANO DI CONFORMAZIONE ALLE SENTENZE DELLA C.E.D.U.
Invero, la pronuncia della Corte di Cassazione anzidetta, se da un lato ha respinto la pretesa del LABITA di ripristino dell’ordine giuridico violato, dall’altro ha provocato una importante intervento legislativo che ha posto così fine all’illogico vuoto normativo.
Ed infatti, il legislatore italiano, nell’ottica di una effettiva valenza giurisdizione sovranazionale cui si è sottoposto il nostro ordinamento giuridico, con la L. 09.01.2006 n. 12 (“Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo”), ha aggiunto una disposizione ad hoc all’interno della L. 23 agosto 1988, n. 400 (“Disciplina dell’attivita’ di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri”), inserendo nell’art. 5, relativo alle attribuzioni del Presidente del Consiglio dei Ministri,
al comma 3, la lettera a bis) in virtù della quale il Presidente del Consiglio “promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei Diritti dell’Uomo emanate nei confronti dello Stato italiano; comunica tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce”.
Naturalmente, la novità legislativa comporta inevitabilmente il riconoscimento del principio secondo cui le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo producono effetti anche sul giudicato delle A.G. nazionali.
Del resto, non può essere revocato in dubbio che con la legge 4 agosto 1955 n. 848 lo Stato Italiano, recependo la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo firmata a Roma il 4.11.1950, si è sottoposto ad una giurisdizione sovranazionale che comporta per le materie di competenza della Corte Europea comporta una limitazione della sovranità dello Stato.
Se così non fosse, il disposto di cui all’art. 2 della L. 848/55 che recita…….piena ed intera esecuzione è data alla Convenzione e Protocollo suddetti a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente……. non avrebbe alcun significato giuridico.
Lo stesso art. 46 stessa legge recita che le Alte parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitiva della Corte nelle controversie nelle quali sono parti.
In buona sostanza, il disposto di legge di cui sopra non lascia spazio alcuno ai giudici dell’ordinamento italiano tenuti a dare esecuzione al dettato delle sentenze della giurisdizione europea cui lo Stato italiano si è sottoposto.
Argomentare diversamente comporterebbe una violazione sostanziale e formale dell’art. 46 della L. 848/55 e dello stesso principio costituzionale espresso all’art. 11 Cost. Repubblicana, circa la limitazione alla sovranità nazionale a condizioni di parità con gli altri Stati.
In buona sostanza, i precisi obblighi nascenti dalla Convenzione, e recepiti dalla più recente normativa interna, portano necessariamente a concludere che, in materia di violazione dei diritti umani, il giudice nazionale italiano sia tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato.
Così, la più recente giurisprudenza di legittimità si è pronunciata……………………………………………………………………………………………………….
Il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’art. 670 c.p.p., l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo.
Cassazione penale , sez. I, 01 dicembre 2006, n. 2800
Alla luce della normativa vigente, così novellata, e dell’orientamento di legittimità sopra enunciato, dunque la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lungi dall’esaurire la propria portata nel dispositivo di condanna all’indennizzo, costituisce quel quid novi rilevante ai fini della richiesta di revoca ex art. 7 L. 1423/56.
REVOCABILITA’ DEL DECRETO DI CONFISCA DEFINTIVO
Con la sentenza del 19.12.2006, n. 57/2007 , le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, hanno definitivamente il contrasto giurisprudenziale che si era formato in ordine alla possibilità giuridica di revocare i provvedimenti applicativi delle misure di prevenzione patrimoniali alla stessa stregua di quelli di natura personali.
Invero, la confisca disposta ai sensi dell’art. 2 ter della legge 575/1965, conformemente all’insegnanento delle S.U. 3.7.1996 non è di per sé provvedimento di prevenzione n senso stretto, piuttosto una sanzione amministrativa di carattere ablatorio, equiparabile alla misura di sicurezza prescritta dal secondo comma dell’art. 240 c.p..
Una simile sanzione può accedere ovviamente solo ed esclusivamente ad una misura di prevenzione personale ed è applicabile nel relativo procedimento di cui segue in linea di massima le regole.
La Corte dopo avere ammesso la natura accessoria del provvedimento di confisca rispetto al provvedimento di prevenzione di natura personale, ha riconosciuto come l’irrevocabilità dell’ablazione non precluda l’accertamento, oggi per allora, circa la sussistenza dei presupposti che hanno condotto all’emanazione del provvedimento ablatorio.
Ed infatti, secondo la Suprema Corte di Cassazione, la dimostrazione dell’insussistenza non è tanto diretta a far cessare gli effetti di una confisca, legittimamente imposta , quanto a farne palese il vizio d’origine. – Talchè, una volta riconosciuta l’invalidità del titolo, la ritenuta irreversibilità dell’ablazione non esclude la possibilità di una restituzione, per determinazione discrezionale della P.A., e quanto meno provoca l’insorgenza di un obbligo riparatorio della perdita patrimoniale, priva di giustificazione sin dal momento in cui si è verificata.
Da qui, dunque, la possibilità di una revoca in funzione di revisione, per la persistenza di un concreto interesse ed in conformità alla ratio di questo istituto che, al di là di ogni effetto di pratico ripristino, comprende il superamento del degrado sociale, con l’ affermazione dell’ingiustizia del provvedimento sanzionatoro.
In conclusione, secondo la sentenza in esame, non vi è incompatibilità tra l’irrevocabilità della confisca con la revoca con effetti ex tunc, allorchè questa tenda ad accertare l’invalidità genetica del provvedimento ablatorio.
Orbene, nella fattispecie il pronunciamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha statuito la illegittimità del decreto di sottoposizione del LABITA alla sorveglianza speciale, rimuovendo così il presupposto genetico del provvedimento di confisca che ha fatto seguito al primo.
E, come detto, appare fin troppo evidente il contrasto tra le decisioni della A.G. Italiana concernente l’applicazione delle misure di prevenzione, personali e patrimoniale, e la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che proprio sul tema in questione ha condannato il Governo Italiano a risarcire il LABITA.
Tale contrasto crea inevitabilmente una falla nel sistema giuridico ed impone all’Ordinamento Giuridico Italiano l’adeguamento del proprio giudicato alla predetta sentenza.
Per questi motivi si chiede a Codesta Corte di Appello la revoca della confisca ordinata con proprio decreto del 16.10.1995, e l’adozione dei provvedimenti consequenziali.
Allega: 1. decreto Tribunale di Trapani del 10.05.1993 che ha applicato la misura di prevenzione personale; 2. decreto della Corte di Appello del 16.10.1995, 3. copia sentenza Corte Europea Diritti dell’Uomo, 4. copia della sentenza in lingua Italiana tratta dalla pubblicazione “ Il Sistema Europeo di Tutela del Detenuto “ edito da Giuffrè,
Palermo, lì
AVV. BALDASSARE LAURIA