I casi di Allushi Besnik, Maria Andò e Daniele Barillà. La loro colpa? Finire in carcere per un nome, una sosia, o un semplice numero di targa
Trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. O, peggio, chiamarsi come il vero colpevole, pur avendo in comune con lui solo il nome. Capita spesso che all’origine dell’errore giudiziario ci sia lo scambio di persona, a volte per un numero di targa molto simile a quello incriminato, per il colore dell’auto, o per una tragica coincidenza causata dall’omonimia. In quest’ultimo caso, la storia di Allushi Besnik, risarcito per l’errore di cui è rimasto vittima con quasi 140mila euro, parla da sola. La sua sfortuna, portare nome e cognome di uno dei membri di un sodalizio criminoso che era finito in manette, a Genova, per associazione mafiosa finalizzata allo sfruttamento della prostituzione e traffico di stupefacenti. Un’accusa che lo ha sottoposto a varie misure restrittive, e in particolare, dal 2002 al 2003, lo ha costretto a stare in carcere. Poi, nel 2005, arriva la sentenza di assoluzione, “per non aver commesso il fatto”.
Allushi arriva in Italia, da Tirana, nel 1991, e da subito lavora conducendo una vita dignitosa e tranquilla, tanto da diventare maggiordomo di Bernardino Branca, imprenditore noto per la produzione del celebre liquore Fernet. Ma è facchino in un hotel a 5 stelle, quando gli piomba addosso, come un macigno, la notizia del suo coinvolgimento nell’intrigo criminale dei suoi omonimi. Già durante la fase delle indagini preliminari, la difesa sostiene l’erroneità nell’identificazione di Allushi e la sua assoluta estraneità alla vicenda, oggetto della vasta indagine denominata “Kanun”, riguardante una organizzazione criminosa di cittadini albanesi dedita al traffico di stupefacenti e sfruttamento della prostituzione. E anche se dalla fase del riesame della misura cautelare, la difesa produce una documentazione probatoria capace di scagionarlo, l’uomo resta in carcere. Persino Bernardino Branca, suo datore di lavoro nel periodo in cui si verificano gli episodi contestati, rende una dichiarazione che fa a pugni con la possibilità di una sua colpevolezza. Ma c’è di più: i magistrati accertano che Allushi Besnik ha tre fratelli, ma quello realmente colpevole. Perchè quello caduto vittima dell’errore ha soltanto due sorelle e comunque non vi è alcun vincolo di parentela con la famiglia coinvolta nel sodalizio criminoso. Dunque, si è trattato soltanto di un caso di omonimia; tutti gli elementi raccolti dalla difesa vengono ignorati, sia in sede di indagine che in udienza preliminare.
Finalmente, nel 2005, finisce l’incubo dell’uomo, assolto in base agli stessi elementi che erano stati, fin da subito, evidenziati anche per ottenere la revoca della misura cautelare. Ecco perchè i suoi difensori, tra i quali l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’associazione nazionale vittime errori giudiziari ‘Articolo 643’, hanno chiesto il risarcimento del danno morale e materiale di Allushi, ottenendo due anni fa un indennizzo di quasi 140mila euro. Ma la storia di Allushi fa parte di un tragico mosaico di scambi che fanno conoscere gli orrori del carcere a molte persone ignare di quanto gli stia accadendo. Dall’omonimia, allo scambio di persona per una terribile coincidenza. Protagonista stavolta, una giovane palermitana, Maria Andò. La sua colpa? Somigliare, quasi come una goccia d’acqua, a una minorenne senza fissa dimora che il 31 agosto del 2007 compie una rapina, ferendolo gravemente, un tassista di Catania. Ma Maria, arrestata per rapina e tentato omicidio il 13 febbario del 2008, quel giorno non era a Catania. Eppure gli investigatori la accusano, e resta in carcere nove lunghi giorni. Finchè le sue tre amiche riescono a provare che Maria, quel giorno, non si è mai mossa da Palermo. Le indagini vanno avanti, e alla fine salta fuori la vera colpevole, la sua sosia, una clochard minorenne. A febbraio del 2009, il fascicolo aperto su Maria Andò, viene archiviato. “Sono stata trattata come una delinquente – ha raccontato Maria – ho vissuto una situazione paurosa in un ambiente che ti fa sentire fuori dal tempo per una vicenda paradossale”. Lei, vittima innocente dell’iter della giustizia, ha deciso di raccontare la sua vicenda per “evitare che possa accadere ad altri”. “Non capisco come si possa mandare in carcere un’incensurata innocente – ha aggiunto – e soprattutto come mai un magistrato che commette un errore del genere non debba pagare per il suo sbaglio”.
Nove i giorni passati dietro le sbarre dalla ragazza, ma per Daniele Barillà, scambiato per un personaggio di spicco della malavita milanese, va molto peggio. Gli anni che sarà costretto a passare in cella, sono sette e mezzo. Viene arrestato l’11 febbraio del 1992 nel comune di Nova Milanese per un grossolano scambio di persona: guida una Fiat Tipo color amaranto con tre numeri di targa uguali a quelli di un narcotrafficante. Soprannominato l’”Escobar della Brianza”, viene condannato a 18 anni e passa 7 anni e mezzo dietro le sbarre. Il caso viene riaperto nel 1997 insieme ad altri processi, dopo l’arresto del tenente colonnello Michele Riccio, responsabile dei Ros in Liguria e capo della DIA Genovese, la cui squadra (di cui fa parte anche il noto capitano Ultimo, passato alle cronache per l’arresto di Totò Riina), aveva eseguito l’arresto. Scarcerato il 12 luglio 1999, Barillà viene assolto il 17 luglio 2000 per non aver commesso il fatto. Daniele ottiene dalla Corte d’appello di Genova la condanna dello Stato ad elargirgli un risarcimento di oltre 4 milioni e mezzo di euro per gli anni passati in carcere. E’ lui, ex titolare di un negozio di articoli elettrici nel milanese, il protagonista di uno dei più clamorosi errori giudiziari italiani, tanto che nel 2005, alla sua storia viene dedicata una fiction di Rai Uno dal titolo ‘L’uomo sbagliato’. Curioso è il fatto che mentre si girava nel carcere di Bergamo una scena del film sulla vicenda di Enzo Tortora (Un uomo perbene, 1999, di Maurizio Zaccaro), Daniele pare abbia detto a un compagno di cella: “Un giorno gireranno un film anche su di me”. E così è stato. Ma Daniele non voleva diventare famoso, almeno non così, voleva continuare a vivere la sua vita normalmente. “L’innocenza lascia tracce proprio come la colpevolezza – aveva detto Barillà alla fine del suo incubo – lavorerò, cercherò di recuperare il tempo perduto. Non sarò però mai più quello di un tempo. Andrò lontano dal mio paese d’origine. Quando si viene condannati ‘In nome del popolo italiano’, rimane addosso un’etichetta incancellabile, un marchio che rimane appiccicato per sempre, anche se si viene assolti. Purtroppo ho perduto gli anni più importanti della mia vita”. Il momento più terribile, quando entrò in carcere, il primo giorno, catapultato in una realtà sconvolgente. E oggi, a oltre 10 anni di distanza da quell’inferno, è chiuso nel silenzio della sua casa di Parigi.
Essere l’”Uomo sbagliato”, storie di scambi di persona
I casi di Allushi Besnik, Maria Andò e Daniele Barillà. La loro colpa? Finire in carcere per un nome, una sosia, o un semplice numero di targa Trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. O, peggio, chiamarsi come il vero colpevole, pur avendo in comune con lui solo il nome. Capita spesso che all’origine dell’errore…