“La mia infanzia in manicomio”: Davide Nadalin chiede allo Stato di essere risarcito

Tre milioni di euro di risarcimento danni, per riprendersi tutto quello che lo Stato gli ha “negato e tolto per molti anni”. Da quando è venuto al mondo, mezzo secolo fa, etichettato da subito come un ‘figlio dei matti’, in un’epoca che doveva ancora essere cambiata, culturalmente e giuridicamente, dalla legge 180. La legge creata…

Tre milioni di euro di risarcimento danni, per riprendersi tutto quello che lo Stato gli ha “negato e tolto per molti anni”. Da quando è venuto al mondo, mezzo secolo fa, etichettato da subito come un ‘figlio dei matti’, in un’epoca che doveva ancora essere cambiata, culturalmente e giuridicamente, dalla legge 180. La legge creata nel ’78 da Franco Basaglia, che si impegnò per riformare l’organizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale, proponendo un superamento della logica manicomiale. Infatti, fu la prima ed unica a imporre la chiusura dei manicomi e a regolamentare il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.

Prima di allora la vita di Davide Nadalin, protagonista della storia da lui raccontata in una denuncia choc, fu un vero inferno. Una sorta di isolamento dalla società esterna, privo di punti fermi e di una famiglia che potesse crescerlo. Dai primi giorni della sua esistenza, Nadalin, oggi 50enne, è stato tolto ai genitori, dichiarati incapaci di intendere e di volere, ed è stato “relegato in quelle strutture” dove, dice, “noi bambini vivevamo come segregati”. Giorni seguiti da tante vicissitudini che hanno aumentato anno dopo anno il peso dei ricordi di quell’infanzia negata, che hanno portato il protagonista della vicenda a chiedere ausilio all’Associazione vittime errori giudiziari ‘Art.643’, per poter presentare il conto, a quello Stato, dice, “che è stato così ingiusto con me e con tanti bambini coattamente ricoverati presso il manicomio triestino dove sono arrivato ad appena 5 anni”. 

Davide nasce a Triste nel ’62, e a un anno viene portato in orfanotrofio. Dopo 4 anni, racconta l’uomo, “vengo ricoverato presso un padiglione del manicomio adibito a Istituto Pedagogico della città, dove rimango per quasi nove anni. A causa di una decisione dei giudici, sono costretto a essere internato e segregato con altri 60 bambini, alcuni orfani, solo pochi con difetti fisici dalla nascita, altri sani di mente come me, ma considerati degli alienati e handicappati, perché figli di gente povera o malati psichici, e perciò sottoposti ad assunzione di farmaci”. 

Con il passare del tempo, prosegue la struggente testimonianza di quell’epoca prima dell’avvento della legge Basaglia, anche i bambini “che forse si potevano recuperare ne escono molto malconci con traumi emotivi, e altri con patologie sia mentali che fisiche. Tutta la documentazione clinica  conservata nel padiglione, dopo diversi anni, per motivi ignoti, viene devastata da un incendio. Io ero uno di loro, perché mia madre già dal 1958 era rinchiusa in uno dei padiglioni dell’ex manicomio”. Gli anni trascorsi tra quelle mura, aggiunge, “sono veramente da manicomio: veniamo trattati come malati psichici, sempre rinchiusi all’interno del padiglione con eccezionali uscite in un terrazzo dello stesso collegio e, una volta al mese, veniamo portati in un giardino alla luce del sole distante 20 metri dall’edificio, puniti in vari modi, sgridati dalle infermiere, senza amore, guida o calore umano”. Anche l’istruzione impartita da quei “maestri” all’interno del padiglione, spiega Davide, è “parziale e formale, non ci prepara ad affrontare la vita all’esterno della struttura, perché quella vita per noi non è prevista. Tanto che ci sembrava che dovessimo rimanere per sempre nella condizione di handicappati”. Ma il protagonista della terribile storia reagisce, tanto che oggi si è ripreso la sua vita e abita in un alloggio popolare dell’Ater con sua madre, che accudisce amorevolmente. Uscito da quelle mura simili a una prigione, prima viene trasferito in un collegio, dove pian piano torna ad avere familiarità con il mondo esterno e ad avvicinarsi all’istruzione. All’età di 15 anni, Davide per due anni frequenta la scuola alberghiera per aiuto cuoco, e nel frattempo viene assegnato a una famiglia che ha fatto richiesta e ottenuto il contratto di affidamento di uno dei tanti bambini bisognosi, ma solamente per un periodo di 18 mesi stabilito dal contratto che la Provincia propone. 

Quell’esperienza, per Davide, è preziosa, perchè per la prima volta sente il calore di un padre e di una madre, anche se per poco. Poi va a vivere con un amico nelle su stesse condizioni in una casa popolare; le spese sono tante, nessuno dei due ha un lavoro. Davide, disperato, si macchia di un reato che pagherà caro con 40 giorni di carcere: tentato furto in un bar, che per la tempestiva denuncia di un’anziana donna, non va a buon fine. Un errore che l’uomo riconosce, ma che definisce poca cosa rispetto alle ingiustizie subìte. Uscito di prigione ricomincia a vivere, sopravvivendo giorno dopo giorno tra mille difficoltà. Per mangiare e trovare qualche vestito, è costretto a fare la carità nelle chiese della sua città. Una triste quotidianità spezzata a volte da eventi eccezionali, come l’incontro fortuito con il fratello che non ha mai conosciuto, e che riconosce grazie a un’amica. Nel 1983 sua madre viene dichiarata libera dalla sua provvisoria interdizione grazie alla legge 180, e va a vivere dalla nonna di Davide. 

Nel ’95 c’è anche l’incontro, dopo tante vicissitudini, con suo padre, che tenta in tutti i modi di riprendere con sé. E ci riesce. Tanto che due anni dopo, con l’aiuto del figlio, i suoi genitori si risposano e tornano a vivere insieme a lui. Entrambi, racconta ancora l’uomo, “vengono riconosciuti invalidi totali, dopo aver combattuto tanto per i loro diritti. Ma dopo poco, purtroppo mio papà, a causa delle barriere architettoniche esistenti nell’appartamento cade e si rompe il femore e dopo una tentata riabilitazione si indebolisce fino al punto di perdere la vita. L’istituto case popolari sapeva che lui era invalido, avrebbe dovuto avvisarmi che avevo diritto a un cambio di alloggio senza barriere, ma così non è stato”. Ancora una volta, la vita dell’ormai 50enne si trova a soccombere di fronte all’ingiustizia. Ora Davide è domiciliato a casa della madre per prestarle assistenza, la tragedia che lo ha segnato se l’è lasciata alle spalle. “Ho impiegato 30 anni per riparare i danni emotivi subìti – conclude Davide – e tutt’ora cerco di crescere e di non fermarmi davanti alle difficoltà della vita che oggi affronto in maniera diversa e decisa. Ora attendo di essere risarcito”. L’uomo aveva già presentato richiesta di risarcimento, ma è stata respinta per un difetto di forma. Ora ci riprova. Ricomincerà la sua battaglia legale affiancato dall’Associazione ‘Articolo 643’, per ottenere quella giustizia che cerca, per sé e per i tanti bambini protagonisti del suo stesso destino.