Storie di chi, scomparso improvvisamente, non ha mai conosciuto la verità processuale. E chi, come Paul Kesseng, è morto da colpevole sapendosi innocente.
Colpevole o innocente? A volte la linea di confine tra i due verdetti, si attenua fino a svanire, perchè l’imputato finito alla sbarra è deceduto tra le maglie del processo. E spesso, si fanno più udienze credendolo contumace, per un piccolo ma significativo errore: la mancanza del certificato di morte che spunta all’improvviso. E’ quanto accaduto qualche giorno fa a Rimini. Morto da un anno e mezzo, un giovane che all’epoca dei fatti era 25enne, è stato processato per danneggiamento dopo una baruffa scoppiata in un bar. Fino a che, alla terza udienza, un carabiniere chiamato a testimoniare ha tirato fuori il certificato di morte, permettendo al giudice di chiudere il procedimento. Ma già alla prima udienza, celebrata nel dicembre 2009, l’imputato era già passato a miglior vita. Il giudice, non vedendolo presentarsi alla sbarra, lo aveva dichiarato contumace. Anche il suo avvocato difensore ne aveva perso le tracce. Alle seconda udienza e’ anche cambiato il legale, nominato d’ufficio per difendere quel giovane finito sotto processo per il danneggiamento di un bar: una furibonda lite scoppiata per un caffè non pagato. Il processo è così andato avanti, tra testimonianze, rinvii e conseguente impegno degli uffici giudiziari riminesi, fino a che non è saltato fuori quel pezzo di carta che ha cambiato tutto.
Uno dei tanti casi che spesso rallentano il naturale percorso della giustizia, dove essere innocenti o colpevoli, conta ben poco, se non per chi resta. Perchè vedere riconosciuta l’innocenza del caro estinto può essere solo un modo per indorare una pillola dal sapore amarissimo. E’ il caso del cardiochirurgo Sandro Bartoccioni: è dei giorni scorsi la notizia della conclusione positiva della sua vicenda giudiziaria. Ma il medico, morto 5 anni fa, non conoscerà mai la verità processuale di oggi. Il caso scoppia a settembre del 1997, quando a seguito di regolare selezione pubblica, Bartoccioni viene assunto dall’azienda ospedaliera di Perugia come primario di Cardiologia del Silvestrini. Dopo quattro anni, il direttore generale dell’epoca, prima lo sospende dall’incarico e poi, contestandogli alcune inadempienze, nel novembre 2001, lo licenzia. Inoltre secondo l’azienda quella di Bartoccioni è un’assunzione a tempo determinato, quindi in caso di licenziamento la reintegrazione non è prevista. Ma qualche giorno fa, dopo quasi 15 anni, il Tribunale di Perugia, con sentenza del giudice del lavoro Simonetta Liscio, ha affermato che le tesi dell’azienda ospedaliera erano infondate, perchè il rapporto di lavoro instaurato nel ’97 era a tempo indeterminato e il licenziamento del 2001, che aveva procurato non poca sofferenza al chirurgo, era completamente nullo. E ciò perché in violazione delle regole previste per i licenziamenti dei dipendenti pubblici, come stabilito anche dalla Corte di Cassazione. Se non fosse scomparso, il professore avrebbe avuto diritto ad essere reintegrato nel suo posto di lavoro. Ragion per cui, il tribunale ha condannato l’ospedale a pagare ai familiari le retribuzioni cui il luminare avrebbe avuto diritto dal giorno del licenziamento, il 7 novembre 2001, fino al giorno della sua morte, il primo giugno 2006.
E ancora, un caso che ha portato alla morte dell’imputato e di sua madre, che non vedranno mai la riapertura del processo chiesta più volte dal presidente dell’Associazione vittime errori giudiziari Articolo 643, l’avvocato Gabriele Magno. La storia è quella del 26enne camerunense Paul Nouk à Kesseng, che inizia con un sogno. Il giovane, morto a maggio scorso per una grave malattia, era arrivato in Italia nel ’99, per diventare calciatore professionista nella culla del calcio mondiale. Ma l’ingiustizia era in agguato. Dopo un anno, a ottobre del 2000, Paul viene arrestato a Pavia con l’accusa di aver violentato sua nipote di 12 anni. A suo carico viene utilizzata solo la prova testimoniale della minore, la quale in più sedi conferma di essere stata stuprata dal cugino. Un accertamento medico confermerà che la minore ha contratto rapporti sessuali. Ad integrare e corroborare il racconto della ragazzina, la testimonianza del padre della bimba, Mikkel Ako, cugino di Paul, che per primo dice di aver ricevuto la confidenza della minore denunciando subito il ragazzo. Dagli atti del processo di primo grado emerge che la 12enne è affetta da un elevato deficit cognitivo e da gravi attacchi di epilessia. Malgrado ciò, è considerata capace di intendere e volere: la sua versione dei fatti è ritenuta dal Tribunale di Lodi perfettamente attendibile.
Il 28 giugno 2001, Paul viene condannato a 6 anni di reclusione perché ritenuto responsabile di violenza carnale nei confronti della nipote. “Per motivi che non ritengo opportuno approfondire – racconta l’avvocato Magno – sono trascorsi inutilmente 45 giorni dal deposito delle motivazioni senza che i precedenti difensori di Kesseng proponessero appello: il 2 novembre 2001 la sentenza è passata in giudicato”. E’ il 15 maggio del 2005, quando Paul scrive al legale un’appassionata e commovente lettera dal carcere di Lodi: qui c’è una dettagliata rassegna della vicenda processuale. E non solo: un documento agghiacciante svela le prime verità. Si tratta di una nuova prova formata nel 2001 presso la Procura di Douala (Camerun) e tradotta in copia conforme all’originale presso l’ambasciata italiana in Camerun nel 2004 dalla quale emergono nuovi elementi che lo scagionano. Primo, Ako Mikkel, l’uomo che aveva accusato Paul, non è il vero padre della ragazzina violentata, ma in complicità con la madre della bimba, poi divenuta sua moglie, ha falsificato i documenti dell’anagrafe camerunese in modo da risultarne genitore legittimo. Ako Mikkel ha anche falsificato i documenti della 12enne sottraendo tre anni alla sua età reale in modo da rendere più agevole la partenza della bimba per l’Italia. Ma non basta, Ako ritratta le accuse mosse al cugino Paul e confessa di avere architettato il castello accusatorio al solo fine di farlo incriminare. Ma fugge, e da allora è ricercato in Camerun per falso in atto pubblico, uso di documenti falsi in atto pubblico, ed emigrazione clandestina di minori.
Toccato dalla vicenda di Paul, l’avvocato Magno, insieme al collega Antonio Petroncini di Bologna, a luglio del 2005 deposita la richiesta di revisione della sentenza di primo grado per ottenere la ripetizione del processo. “Ma la Corte d’Appello di Brescia – spiega Magno – rigetta l’istanza, dichiarando la richiesta di revisione manifestamente infondata sul presupposto che la ritrattazione di Ako Mikkel non costituisce una nuova prova”. A ottobre di quello stesso anno Paul esce di prigione dopo aver scontato la pena, ma i suoi sogni e la sua vita sono ormai infranti. E non solo i suoi: la madre, divorata dalla tragedia, si lascia morire. A raccontarlo, è il fratello di Paul, Barthlemy Kesseng, che oggi vive a Milano e lavora come elettricista. “Vorrei che il processo fosse riaperto – confida l’uomo – per Paul e per mia madre. Lei è morta con questo macigno sul cuore, dopo aver allevato Ako come un figlio. Ma Ako l’ha tradita, e lei non l’ha sopportato. E se ne è andata in silenzio. Vale lo stesso per mio fratello Paul, che non mi ha mai rivelato della malattia che lo aveva colpito, finchè un giorno di maggio, mi hanno detto che anche lui non c’era più”.
Morti tra le maglie del processo, in attesa della sentenza
Storie di chi, scomparso improvvisamente, non ha mai conosciuto la verità processuale. E chi, come Paul Kesseng, è morto da colpevole sapendosi innocente. Colpevole o innocente? A volte la linea di confine tra i due verdetti, si attenua fino a svanire, perchè l’imputato finito alla sbarra è deceduto tra le maglie del processo. E spesso,…