Riccardo Sindoca, come si distrugge il “life motive” istituzionale di un uomo perbene

“Come è facile attentare alla vita e di fatto distruggere il ‘life motive’ istituzionale di un uomo, servitore dello Stato con le ‘stellette cucite sulla propria pelle’; sei lunghi anni che hanno segnato indelebilmente la mia vita e quella dei miei cari: anche questa purtroppo è parte della storia della mia amata Patria. Chi ha…

“Come è facile attentare alla vita e di fatto distruggere il ‘life motive’ istituzionale di un uomo, servitore dello Stato con le ‘stellette cucite sulla propria pelle’; sei lunghi anni che hanno segnato indelebilmente la mia vita e quella dei miei cari: anche questa purtroppo è parte della storia della mia amata Patria. Chi ha tradito? Oggi un tribunale ha decretato la mia estraneità ad alcuna associazione a delinquere ma questo potrà mai ripagare me e la mia famiglia?”. Parole amare quelle di Riccardo Sindoca, vittima ‘illustre’ di uno degli errori giudiziari italiani, riconosciuti con una sentenza di assoluzione ‘per non aver commesso il fatto’.

Arrestato sei anni fa, quando era vicedirettore del Dipartimento Studi Strategici Antiterrorismo (DSSA) Iterforze di Polizia, Sindoca viene accusato insieme al direttore generale di aver creato all’interno dello stesso Dipartimento, una sorta di ‘polizia parallela’ nel settore della lotta al terrorismo. Questa l’ipotesi di reato che porta la Digos della questura di Genova, nel 2005, ad arrestarlo, e a compiere nelle prime ore dell’alba oltre 25 perquisizioni in dieci regioni. Gli indagati sono 24, di cui dodici appartenenti a forze dell’ordine. Riccardo Sindoca, accusato di essere un personaggio legato alla massoneria, alla destra extraparlamentare e ai servizi segreti, viene sottoposto agli arresti domiciliari. Ma a distanza di sei anni quelle accuse si sgretolano, una dopo l’altra, dissolvendo il polverone mediatico che travolge in pieno la vita dell’esperto di studi strategici e di criminologia. A marzo scorso infatti, nei suoi confronti, il Gip di Milano Andrea Ghinetti, dichiara il non luogo a procedere ‘perché il fatto non sussiste’, in quella inchiesta che vede tutti prosciolti gli imputati, accusati di associazione per delinquere finalizzata a usurpazione di funzioni e, a vario titolo, rivelazioni di segreti di ufficio e illecito uso di dati riservati, in violazione della legge 121 del 1981. Oggi Sindoca, sostenuto dagli avvocati di ‘Articolo 643’, associazione vittime errori giudiziari guidata da Gabriele Magno, racconta la sua versione dei fatti. Cosa si prova a essere additati come colpevoli quando si è innocenti, cosa si prova quando, come fa notare nelle sue parole amare, si uccide il ‘life motive’ istituzionale di un uomo perbene.

“A rovinarmi – si sfoga Sindoca dalla sua casa in Svizzera (che considera la sua seconda Patria), a Lugano, dove vive dal 2006 – non è stato solo l’errore di un giudice nell’attribuirmi accuse infondate, o l’errore giudiziario in sé, ma soprattutto la sentenza che in poche ore, la stampa mi ha attribuito. Colpevole. Il diritto di cronaca è il sale della democrazia, ma la libertà di opinione che diventa calunnia e ti distrugge, quella è ingiusta”.

Sono le quattro quel mattino del 2005 quando, a Pavia, nella casa della madre del responsabile della DSSA, dove l’uomo si trova con il figlio, fanno irruzione diciotto militari. Ripercorrere quelle tragiche ore che cambiano per sempre il corso della sua vita, pubblica e privata, per Sindoca è ancora una ferita aperta, nonostante la sua innocenza sia stata scritta nero su bianco in una sentenza.

Quell’indagine che inchioda il responsabile di studi strategici contro il terrorismo, già esperto in ‘ISPEG – NATO Antiterrorismo ed in Criminalistica’, e in ‘risk analisis e assestments’, parte dalla morte di Fabrizio Quattrocchi, la guardia del corpo uccisa in Iraq nel 2004. Alla scoperta della fantomatica struttura, si arriva dopo quell’episodio che rimbalza nelle cronache di tutto il mondo. Gli inquirenti escludono però qualsiasi coinvolgimento di Quattrocchi nella DSSA, nonostante quanto scrivano molti giornali. Indagando sul fenomeno delle body guard operanti all’estero, gli agenti della Digos di Genova si imbattono nelle investigazioni del Dipartimento, bollate da subito come illegali: pedinamenti, indagini, uso illecito di distintivi e di palette in uso alle forze dell’ordine, sono alcune delle contestazioni. Non solo: con la complicità degli appartenenti alle forze dell’ordine, si contesta agli indagati, vengono anche attinte notizie riservate dalle banche dati interne. Ma il vero atto d’accusa è il reato di associazione per delinquere finalizzata all’usurpazione di funzioni pubbliche in materia di prevenzione e repressione dei reati: in sostanza, gli inquirenti ritengono che lo scopo del Dipartimento sia quello di usufruire di finanziamenti da parte di organismi nazionali e internazionali. Eppure il Dipartimento Studi Strategici Antiterrorismo, come viene scritto sul sito Internet, è istituito come Ente di Diritto Pubblico dalle Interforze di Polizia della Repubblica Italiana, per offrire un supporto d’indagine e ricerca, altamente specialistico, a tutti coloro che appartengono a organizzazioni potenzialmente a rischio di aggressione da parte del terrorismo. Sindoca definisce da subito il suo arresto una ‘bufala’, una “chiara montatura per delegittimare l’operato di un ente solo perché diretto da due uomini di destra”. “Il nostro dipartimento – replica alle accuse – non si è mai sostituito alle forze di polizia: abbiamo solo svolto studi con l’unica finalità di informare le autorità preposte sull’eventuale esistenza di gruppi terroristi islamici in Italia. Non credevo che farsi parte attiva per produrre ricerche altamente qualificate al fine di garantire la sicurezza nazionale fosse un reato”. E infatti non lo è, ma lo scandalo scoppia. Il Dipartimento viene ribattezzato come ‘Gladio bis’, racconta Sindoca: “Vengo anche accusato – aggiunge – di essere la sponda italiana per il sequestro dell’Imam Abu Omar. Ma come è possibile un mio coinvolgimento? Il Dipartimento nasce nel 2004, mentre il sequestro di Abu Omar avviene il 17 febbraio del 2003. E gli inquirenti lo sapevano”. Ma sono sono passati sei anni per vedere scritta la parola fine su questa vicenda giudiziaria: “Quando un’accusa è ingiusta – commenta Sindoca – non riesci a crederci. Vivi come sommerso in una bolla, come se tutto ciò non t’appartiene, eppure ci devi fare i conti. La tua vita si annienta, non esisti più, come persona, come professionista”. Ecco perchè nel 2006 Sindoca decide di andare a vivere a Lugano, dove ricomincia una nuova vita. “Ad oggi, ancora, mi riesce difficile pensare di non essere stato processato neanche in primo grado per questa vicenda – continua – nonostante abbia presentato ricorso, alla Suprema Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo, per esigere un giusto processo. Dopo 5 anni l’iter processuale subisce una battuta di arresto, perchè gli stessi giudici del Tribunale di Genova si dichiarano incompetenti a giudicare per territorio”. Situazione questa, fatta comunque già presente al Tribunale del Riesame di Genova da Sindoca nello stesso mese di luglio del 2005, nelle more dell’istanza presentata dai suoi legali avverso la negazione della richiesta di cessazione del provvedimento di custodia cautelare, richiesta a fine interrogatorio di garanzia reso innanzi ai pm ed al Gip , Elena D’Aloisio. “Morale, tutto da rifare con invio degli atti al tribunale di Milano, dove la sentenza arriva 4 mesi fa. Sono innocente – conclude Sindoca – ma cosa ne è rimasto della mia reputazione, della mia vita sociale indelebilmente colpita nel profondo, i miei affetti, la mia vita privata?”.